Canti sacri nel Comune di Pulfero



La parola del Sindaco

L ‘idea di procedere ad una raccolta sistematica ed il più possibile completa dei canti liturgici della tradizione dei nostri luoghi, ci è sembrata da subito un ‘ottima occasione per far luce su un aspetto legato alla vita quotidiana dei nostri padri e dei nostri nonni, sconosciuto ai più, ma talmente ricco ed affascinante da meritare un ‘attenzione particolare.

L ‘Amministrazione Comunale di Pulfero, da sempre sensibile nei confronti di tali tematiche, ha perciò voluto con questo libro dare un piccolo ma significativo contributo alla riscoperta ed alla valorizzazione di questo patrimonio culturale che, seppur circoscritto e molto specifico, rappresenta indubbiamente un capitolo importantissimo della nostra storia.

Fondamentali per la riuscita di tale progetto sono state la preziosa opera di ricerca e la dedizione dei due autori, entrambi nativi del nostro comune:
Luciano Chiabudini, profondo conoscitore nonché appassionato cultore delle tradizioni delle Valli, che ha operato sul territorio alla ricerca di testimonianze;
Nino Specogna, esperto e studioso di canto popolare, che ha trascritto il materiale raccolto arricchendolo di un appropriato commento.

Ad essi va un ringraziamento speciale da parte nostra. Pulfero, dicembre 1998.

il Sindaco
Nicola Marseglia


Premessa

Un osservatore non superficiale che abbia avuto modo di partecipare anche casualmente ad una manifestazione religiosa nel territorio abitato dagli Slavi del Natisone, sia essa una sagra, che una ricorrenza fissa come Natale e Pasqua, l’Epifania o la Pentecoste, le funzioni del mese di maggio o la commemorazione dei Defunti, si sarà reso conto che esiste ancora fra la gente una fede sentita e partecipe, sorretta da un forte sentimento di attaccamento alla tradizione.
Questi avrà notato inoltre la costante presenza del canto corale quale complemento che asseconda e sottolinea il rito con la musicalità radicata nel profondo dell’anima dei popoli slavi.

La componente musicale, meglio dire canora, già insita nella natura della popolazione residente di matrice Slava, mentre in altre zone del Friuli con medesime origini va lentamente scomparendo assorbita dalla cultura dominante, nel territorio del comune di Pulfero che si trova a ridosso di un confine politico ma non etnico, per felice definizione “estrema propaggine occidentale dell’immenso mondo slavo”, risente di questa vicinanza assorbendo rapidamente le melodie in arrivo da Est fondendole con le proposizioni musicali provenienti dalle matrici religiose di Aquileja e Cividale.

Il tema scelto per questa ricerca:
gIl canto sacro nel territorio del comune di Pulfero”
(difficile trovare un titolo più sintetico),
più che una ricerca di archeologia musicale si prefigge lo scopo di presentare un quadro di insieme sul passato e sul presente canoro, seguendo un percorso narrativo basato sulle modificazioni che si sono imposte via via nel tempo, sui motivi che le hanno generate, facendo fede alle opinioni e alle testimonianze di giovani ed anziani.
Particolare attenzione verrà posta al salvataggio ed al recupero di un patrimonio ricco di melodia, di testi poetici, di inventiva e creatività, tenendo sempre in evidenza le due componenti latina e slava che qui si sono fuse, anche se risulterà prevalente il canto di matrice slovena che maggiormente aderisce allo spirito ed al passato di questa popolazione.

La ricerca sul territorio è stata eseguita dall’autore che si è avvalso, per la trascrizione musicale, della preziosa opera del prof. Nino Specogna, insegnante di musica e direttore della scuola musicale Glazbena matica di San Pietro al Natisone.

Delimitazione geografica della ricerca

Come accennato in premessa, la zona presa in esame e la raccolta dei canti religiosi riguardano il comune di Pulfero secondo un itinerario che toccherà parrocchia per parrocchia, il che darà modo di seguire l’evoluzione e la modificazione di medesimi brani musicali da un paese all’altro.
Va tenuta presente la conformazione tutta particolare del territorio comunale, il più vasto della Slavia e fino a pochi anni fa anche il più popolato.
Il fiume Natisone che lo attraversa longitudinalmente dal confine di stato al confine comunale di San Pietro, dall’istituzione dei comuni fino all’anno 1929 faceva da linea di demarcazione fra Rodda e Tarcetta, unificati nell’attuale unico comune di Pulfero.

L’ordinamento ecclesiale

L’ordinamento ecclesiale aveva invece un’altra formulazione.
Fino al 1820 circa, tutto il territorio della valle del Natisone nonché Savogna, dipendeva dall’ unica vasta parrocchia di San Pietro il cui parroco aveva potestà in materia di battesimi, matrimoni, funerali, messe patronali oltre ad altre prerogative sui riti pasquali quali la benedizione dell’ulivo che veniva impartita ai mazzetti/snopiči, disposti ai piedi del campanile.
L’obbligatorietà del ricorso ad un’unica località per la celebrazione dei riti che abbiamo menzionato, comportava come prima conseguenza un livellamento della procedura ma anche la diffusione dei canti rituali che venivano uniformati fra tutti i credenti della vasta, unica parrocchia.

Per le lontane comunità periferiche, il ricorso a San Pietro risultava però troppo oneroso e disagevole, in particolare il trasporto e la sepoltura dei defunti, tanto che una ad una sorsero “di fatto” le attuali chiese parrocchiali con adiacente cimitero, incominciando da Antro ed Erbezzo, che gradualmente sottrassero alcune prerogative ai non sempre consenzienti, sarebbe meglio dire recalcitranti, parroci di San Pietro.

Il parziale distacco dalla Matrice, diede modo alle singole comunità di adottare riti celebrativi propri, inserendovi canti che i solerti cappellani od alcuni fedeli, importavano dai libretti di canti o memorizzati nei viaggi attraverso l’est europeo.

Risultavano maggiormente ricettivi al nuovo modo di cantare i paesi di montagna agevolati nel contatto in quota da una fitta rete di sentieri che li teneva collegati, rispetto al fondovalle verso il quale fino a pochi anni fa non esistevano strade ed ovviamente la motorizzazione di massa doveva ancora arrivare.

Le parrocchie del Comune

Con il graduale distacco da San Pietro, si formarono le cappellanie, poi vicarie ed infine negli anni ‘50 divennero tutte parrocchie, servite da un sacerdote locale o che conoscesse comunque il dialetto sloveno soprattutto per amministrare le confessioni degli anziani.
Fino a due generazioni orsono, salvo situazioni particolari, la maggioranza di essi non conosceva l’italiano ed era analfabeta.

I sacerdoti incaricati del servizio religioso, normalmente appena consacrati, si dovevano sobbarcare disagi di ogni sorta in particolare per raggiungere i casolari isolati e svolgere con remunerazione da mendicanti mansioni di insegnante, medico, consigliere.
Solo a mo’ di esempio va citato Antro, che comprende Pegliano in quota e Biacis in riva al Natisone.
Pensiamo ad Erbezzo con l’annesso grosso abitato di Montefosca, le tante frazioni di Mersino e di Rodda che hanno messo a dura prova carattere, volontà e salute di questi preti, molti dei quali si sono ammalati e sono deceduti in giovane età.

La situazione odierna, con la popolazione decimata, con un unico parroco, è nota a tutti e fare commenti sulle cause del degrado demografico ci porterebbe lontano e fuori tema.

I canti presi parrocchia per parrocchia

Nel presentare i canti, anziché paese per paese, prenderemo come riferimento le parrocchie esistenti fino ad alcuni anni fa poiché nelle belle ed amate chiese risuonavano i canti religiosi del passato dando ampio spazio al nuovo che avanzava, altrettanto meritorio e degno di citazione, perché rivolto a lode del Creatore.

Elenchiamo dunque le sette parrocchie comprese nel territorio del comune partendo dalla sinistra del Natisone con
Mersino adagiato su una falda del Matajur, indi
Rodda con le sue 17 frazioni per arrivare a fondovalle a
Brischis, con un territorio stretto, ma lungo una striscia di ben sei chilometri. Sulla destra del fiume, adagiato su un vasto pianoro, distante dal capoluogo ben dodici chilometri via strada, c’è la più giovane parrocchia di
Montefosca, sorta nel 1935 in conseguenza del più che giustificato distacco da
Erbezzo di cui faceva parte. Su un ameno pendio degradante verso il Natisone, in un posto solatio sorge
Lasiz con la sua parrocchiale e proseguendo verso ovest, poco più in alto, domina maestosamente da un rilievo la chiesa con sede parrocchiale di
Antro che, per storia e monumenti, si può considerare la matrice delle chiese del.territorio del comune.

I canti esemplificativi registrati in cassetta

I brani di seguito riportati, sono il frutto di ricerche fra le poche scartoffie rinvenute nelle soffitte o scantinati delle varie parrocchie in cui vi sono più che altro partiture di messe note ed eseguite dalle cantorie locali in occasione di importanti ricorrenze religiose; in alcuni casi sono venuti alla luce degli spartiti preziosi ed ormai dimenticati.

Mediante le testimonianze di persone anziane invece, è stato possibile ricavare molto di più, con il vantaggio di poter risalire ad almeno un secolo addietro.

Al fine di rendere accessibile la lettura di alcuni brani significativi anche a chi è privo di istruzione musicale, alla pubblicazione viene allegata una cassetta incisa in circostanze fortunose, senza particolari pretese artistiche, bensì quale documento di un certo modo di cantare.
Alla realizzazione di questa cassetta hanno dato il proprio contributo alcuni cantori di Mersino, di Lasiz e Cicigolis.

Il ventaglio della raccolta ovviamente non può limitarsi al canto religioso corale, eseguito cioè in chiesa ma va allargato all’ambito familiare dove non mancano canti devozionali o narrativi di eventi religiosi nonché preghiere cadenzate con ritmo e melodia definiti, atti ad un facile apprendimento.
Per la valenza niente affatto trascurabile posseduta, anche ad essi verrà dato il giusto spazio.

Le composizioni d’autore diffuse tramite le “Pesmarice”/Libri di canti, che qui hanno trovato terreno fertilissimo specialmente fra le ragazze, hanno subito notevoli adattamenti e modificazioni per cui è difficile definirle tali.
Questi canti comunque hanno retto e superato ogni sorta di difficoltà ivi compreso l’ avvicendamento con sacerdoti privi della conoscenza del dialetto e della cultura locali.

Nel secondo dopoguerra il canto di matrice slovena venne letteralmente bandito da quasi tutte le chiese del comune per ragioni che ancora oggi è difficile decifrare.

Il riferimento al canto registrato in cassetta, avrà apposita numerazione in corsivo.

Tipo di canti e luogo di esecuzione. La messa ed il vespero

Secondo la secolare tradizione locale, il canto che impegnava tutta la popolazione, tale da creare commozione ed intensa partecipazione, era il canto che si esprimeva nel luogo di culto propriamente detto, l’antica chiesa, normalmente costruita attorno al 1500, quasi sempre lontana dal paese e successivamente sostituita con un’ aula più ampia entro l’abitato.

In chiesa la messa veniva accompagnata normalmente da uno dei numerosi motivi ancora oggi in auge che iniziano con il suggestivo invito Pred Buogan pokleknimo/Da vanti a Dio inginocchiamoci ed accompagnano le varie fasi del rito: Gloria, Vangelo, Credo, Offertorio, Sanctus, Elevazione, Agnus Dei.

Non mancano i canti mariani, mottetti come O srečna duša/ O anima beata , secondo una tradizione ed un modo di cantare consolidato. I preti della vecchia guardia. Don D. Chiacig, Cernet, Blasutto, Jaculin, Cernoja, Cracina, Cuffolo, P. Guion, Qualizza, mns. Trinko, Laurencig, Birtig, Cramaro. Il pomeriggio della domenica era dedicato al canto dei salmi con benedizione eucaristica ed il Buog bodi hvaljen/Dio sia benedetto . L’organo o l’ armonium non sempre erano garantiti ma ciò non creava problemi perché in ogni parrocchia c’era una voce femminile, sicura ed autorevole che possedeva il carisma dell’intonazione e conduzione del canto. I preti della vecchia guardia. Don D. Chiacig, Cernet, Blasutto, Jaculin, Cernoja, Cracina, Cuffolo, P. Guion, Qualizza, mns. Trinko, Laurencig, Birtig, Cramaro.
A queste benemerite, dedicheremo lo spazio che si meritano seguendo il nostro itinerario.

Le processioni, le rogazioni, i voti pellegrinaggio

Le processioni attraverso il paese in occasione della sagra, una dedicata al santo titolare, una alla Madonna (V o VI dopo Pasqua) ed una a settembre (odpustak) si svolgevano al canto delle litanie lauretane, del Sacro Cuore, di inni sacri come Lauda Sion salvatorem lungo tutto il percorso.
Altra occasione per eseguire i canti sacri fuori dalla chiesa erano le Rogazioni attraverso i campi, cui partecipavano con particolare devozione i padri e gli anziani di famiglia, che si riteneva avessero particolare ascolto presso i santi invocati a piena voce mediante le litanie di tutti i Santi, con i relativi intercalari. In ogni famiglia alla sera veniva pregato il rosario con canto finale del Častito/Sia lodato che costituiva la prima scuola di armonia per i bambini.
In particolari circostanze venivano eseguiti canti narrativi riferiti alla vicenda della natività Poslušajta usi judje, Jožuf rajža , i canti della devetiza/novena di Natale , la Koleda in occasione della questua di fine anno.

Preghiere cadenzate

Pur non facendo parte del canto propriamente detto, vi sono delle espressioni devozionali meritevoli di citazione non solo per il testo sempre impregnato di profonda fede e devozione ma anche per la cadenza, il ritmo e la nenia melodica sempre diversa ed aderente al testo.
A questa serie appartengono gli Zlati Očenaši/Paternoster d’oro, Le preghiere del buon riposo / implorazioni all ‘Angelo custode .

Anche per questi brani trascritti nella stesura del testo si farà ricorso alla numerazione precitata.

Disposti questi necessari paletti, saliamo come programmato, a Mersino.

Mersino

Sotto questo toponimo si nascondono una quantità di frazioni estese su una vasta zona ricca di sorgenti e sovrastata da estesi pascoli che raggiungono la vetta del Matajur.
Sopra questi pascoli detti planine , si ergono numerose casere ove il latte veniva lavorato e trasformato in formaggio, burro, ricotta. Il siero, ultimo sottoprodotto caseario, serviva da alimento per i suini.

I luoghi di culto

Ai fini però della ricerca che ci siamo proposti, si può notare che Mersino è diviso in due gruppi di frazioni e denominato Mersino alto e basso, entrambi dotati di una propria chiesa.
Alla primitiva, costruita nel secolo XIII quindi di antica datazione, ubicata in luogo impervio su uno sperone di roccia sovrastante il Natisone, dedicata a san Lorenzo martire, siaggiunsero per comodità ed esigenze di crescita demografica, quelle di Mersino Basso dedicata alla SS.ma Trinità e successivamente a Mersino Alto dedicata al Sacro Cuore di Gesù.

Quest’ultima venne costruita nel 1897 grazie al lascito della cospicua somma di settemila corone che il nativo Don Ivan Oballa, poeta e scrittore, inviò dalla Carinzia dove svolgeva la sua missione pastorale.
La lapide sulla facciata della chiesa recita: Dobrotniku cerkve Presvetega Sarca Jezusovo duhov. Ivanu Oballa Gorenji Mersin hvaleino postavli v spomin / Ai bene fattore della chiesa del Sacro Cuore di Gesù il sac. Ivan Oballa Mersino superiore riconoscente pose in memoria.

Attraverso questo paese posto in quota lungo le falde occidentali del Matajur, passa quello che in chiave moderna possiamo definire il “sentiero di Ho Ci Mm” intendendo con ciò indicare una via sconosciuta ai più lungo la quale pervenivano dagli adiacenti paesi gravitanti sulla valle dell’Isonzo, numerosi brani canori, religiosi e laici che ben presto si diffondevano nel resto della valle. br> Perfino durante il periodo di più stretta sorveglianza della cosiddetta “cortina di ferro” concomitante con la linea di confine del comune di Pulfero e dello Stato italiano, non si è interrotta l’osmosi canora fra i paesi confinanti, Luico in particolare.

Il modo di cantare degli abitanti di Mersino, come il modo di esprimersi nel dialetto locale, sono riconoscibili al primo approccio per il cantilenare delle vocali caratteristico della gente degli alpeggi.

L’influsso dei preti nella espressione canora

Durante il periodo di servizio dei cappellani locali: don Pussini di Cicigolis, don Simiz, don Valentino Birtig di Rodda, sostituito nel 1948 da don Giacinto Marchiol lodevolmente tollerante della lingua locale, la messa in latino ante Concilio era accompagnata da brani canori diffusi in tutte le chiese con il medesimo testo, ma con almeno tre varianti melodiche come avremo modo di descrivere in altra parte del libro.
Questo gruppo di canti fondamentali nell’ accompagnamento della messa domenicale, costituiva la struttura canora su cui poggiava la partecipazione corale dei fedeli.
In genere, con armonium o senza, spettava alle donne dare l’intonazione cui seguivano le voci maschili nei tre timbri fondamentali di tenore (primo), baritono (secondo) e basso.

Nella seconda parte sono allegati i testi con traduzione e trascrizione musicale nei tre motivi principali.

All’offertorio veniva eseguito uno dei vari canti che si prestavano all’esecuzione corale e che gli stessi fedeli eleggevano in una propria graduatoria di favore, come ad esempio:
Pres veto sarce slavo/gloria a te Cuore Sacratissimo ; il notissimo
O srečna duša/ alla comunione ed altri brani tutti riportati in allegato.

Giova menzionare che a Mersino esiste una versione particolare di O stua krat srečna duša ti/O cento volte anima beata la cui trascrizione non avrebbe avuto l’efficacia che possiede l’ascolto di una registrazione.

Alcuni canti registrati in cassetta

Per questo motivo, nella cassetta allegata, comprendente purtroppo solamente una ventina di brani, trova posto anche questo prezioso reperto musicale nella speranza di un suo rinlancio che mantenga la forma espressiva delle specificità canore di località diverse.

Alla registrazione hanno partecipato persone della parrocchia di Mersino e di Lasiz, con risultati perfettibili nella tecnica ma validi come documentazione.

Altri canti particolari di Mersino sono l’altrettanto noto canto natalizio Te dan je usega veseja/ il giorno della grande gioia , che viene eseguito in forma addolcita, si potrebbe dire arrotondata.
Per rimanere al canti tradizionali antichi va citato il brano pasquale Jezus je od smarti ustu/ Gesù è risorto , altro brano che verrà trattato a parte per la sua storia concomitante con il Te dan sopra menzionato.

In questo invidiabile paese da cui si domina la valle e si respira l’aria dei mille metri, altre usanze con riferimenti canori sono rimaste in auge senza interruzione, in particolare la Devetica/Novena , di cui trascriviamo due canti e le parole di rito.

Devetica - Novena

A Mersino, la novena di Natale è rimasta intatta perché è stata praticata con continuità anche durante il periodo bellico, quando il coprifuoco imponeva di ritirarsi al crepuscolo ognuno nella propria abitazione.
Il rito è noto nel nostro comune proprio grazie agli abitanti di Mersino, che ogni anno, dopo l’Immacolata (8 dicembre) iniziano a portare una sacra immagine in ogni casa del paese ove la Madonna rimane ospite ed esposta alla venerazione dei famigliari e vicini per ventiquattr’ ore.
Alla sera cambia dimora e le parole che le due padrone di casa pronunciano, sono le seguenti.

La padrona di casa saluta così:
Prjatelica, sprimi Mater Ježušovo na njenin trudnin potovanju u hudin zimskin času. U njenin neomadeževanin materinstvu naj častijo ne samuo naco an iutre, prizadevaj se da jo vedno prenehajo častit . - Amica, accogli la Madre di Gesù durante il suo faticoso viaggio nel rigido tempo invernale; nella sua immacolata maternità la venerino non solo questa sera e domani ma fa in modo che non la cessino mai di venerare.

Con le seguenti parole, l’immagine viene accolta dalla nuova padrona:
O bodi pozdravjena prečista Devica, želnuo Te sprimen pod muojo srtieho. Bodi mi zviesta pomočnica, varvi muoio dušo na smartno uro. Amen. - Sii salutata o purissima Vergine; con desiderio ti accolgo sotto il mio tetto. Che tu mi sia fedelmente di aiuto, difendi la mia anima nell’ora della morte. Amen.

I dettagli e la descrizione tecnica sono descritti all’inizio delle trascrizioni musicali.

Altri canti e cantori

Come in tutte le parrocchie, a Mersino la pratica delle rogazioni, che si perpetua fino ad oggi nel giorno di San Marco (25 aprile), è ricca di suggestive implorazioni che fanno da sfondo alla lettura dei brani del Vangelo ed alle litanie dei Santi nelle soste presso gli altarini disposti agli incroci dei sentieri di monte.
Gli intercalari alle litanie dei Santi vengono chiamati odpevi/antifone.
Nella cassetta ne è inciso un piccolo esempio.

Dagli anziani di Mersino viene ricordata anche una messa funebre di particolare effetto di cui però manca memoria e spartito.
Vi è chi rammenta un canto missionario molto bello, trascritto nella seconda parte del libro.

In passato esistevano due cantorie dirette dal geniale tuttofare Giuseppe Zorza detto Pizeto.
Citiamo alcuni nomi di cantori che siamo riusciti a reperire chiedendo scusa per le inevitabili dimenticanze.
Citeremo Oballa Genjo, Battistig Zmela, Matja Cucovaz Zgolent, Miljo Medves, Perin Medves, Maria ed Alessandra Zorza, Livia Clavora, Anita Juretic, Alma Jerep e tanti altri che non sono più tra i vivi.
Negli anni ‘70 venne istruito al canto sacro un gruppo di giovani ragazze che si esibirono in varie manifestazioni della Benecia.

Persone notevoli per l’interesse al canto

Va menzionato per la sua attenzione verso la musica non solamente sacra, il sacerdote don Giuseppe Gorenszach che fu parroco di San Leonardo.
Egli ci ha lasciato uno dei primi documenti su cui si sono poi basati molti studiosi di canto popolare, una raccolta di Marsinske narodne/canti popolari di Mersino che vennero pubblicate sulla rivista Luč, Ts l932pg.1220.
L’amore per il paese natio e per la musica da parte di don Gorenszach assunse forma concreta con il dono che egli fece alla chiesa di Mersino Basso di un armonium, ancora oggi in uso.
Un notevole contributo alla ricerca, rivalutazione e valorizzazione del repertorio canoro di Mersino, lo diede e lo dà tuttora il coautore di questo libro prof. Nino Specogna nativo di Tarcetta.

Mersino è rimasta un’isola in cui, accanto ai brani di canto religioso standardizzato diffusi su tutto il territorio nazionale, (il notissimo Mira il tuo popolo, Dal tuo celeste trono, Ave maris stella, Nome dolcissimo) conserva e ripropone in ogni circostanza favorevole le perle del proprio ricco e prezioso repertorio canoro.

RODDA

In questo nome Rodda, il cui significato rimane ancora da accertare, sono compresi ben diciassette gruppi di case ricoprenti il vasto territorio acclive che partendo da una certa altezza del versante occidentale del Matajur, discende a valle fino a toccare la sponda sinistra del Natisone. Normalmente gli abitanti si dichiarano “di Rodda” per poi specificare la propria borgata con l’aggiunta, se necessaria, della indicazione di Rodda Alta e Bassa; questa distinzione, come vedremo in seguito, assume una certa importanza nella trasformazione ed evoluzione del modo di cantare durante le sacre funzioni.

Le tre chiese di Rodda

Sopra il vasto territorio della parrocchia vi sono ben tre chiese, tutte e tre di antica data, attorno alle quali sono sorte numerose leggende.
Si tratta di san Ulderico/svet Uorh posta sul costone del monte in luogo isolato, costruita nei secoli XIII/XIV, la cui esatta, primitiva dedicazione sarebbe da attribuire a s.ta Elisabetta Langravia.
Il 13 settembre 1601 fu uisitata la ven.da chiesa di s.ta Helisabetta Langrauia sopra la uila di roda, in questa chiesa non ui è altro, si perché è lontanissima di case et in altissimo monte, si anco perché è unita la sua intrata con le altre due di roda che sono in uila e quando fa bisogno celebrar, le cose necessarie si portano in dette chiese che sono in uila. (Visita past.can. Missio in A. Cracina. Gli slavi del Natisone. Pg. 225).

La seconda, dedicata a San Leonardo abate, risale al tardo quattrocento ed è posta su un vasto pianoro nei pressi della frazione di Osiach.

Infine, la parrocchiale dedicata a san Zenone, costruita nel 1425, sorge all’interno della frazione di Tuomaz (Rodda alta).

Le modificazioni nel canto sacro

La storia di Rodda per quanto concerne il canto religioso, non si discosta dalle altre parrocchie che hanno subito le modificazioni stabilite dal Concilio Vaticano II con l’introduzione della lingua di stato in sostituzione del latino.
La vera rivoluzione però è venuta molto prima, da quando Pre Tita Cruder di Sammardenchia di Tarcento, strenuo difensore della specificità del nostro dialetto, dovette subire il confino durante la prima guerra mondiale, con le solite speciose accuse di austriacantismo.
Ritiratosi al suo paese natale nel 1935, pre Tita fu sostituito nel 1938 dall’energico pre Elio Tracogna di Campeglio, di lingua friulana.
Don Elio conosceva superficialmente il dialetto sloveno che era indispensabile in confessionale, con gli anziani privi di istruzione della lingua italiana.
Le nozioni sufficienti in dialetto sloveno, egli le apprese dalla madre e dalla perpetua, entrambe native della nostra terra.
In breve tempo però don Elio, robusto e possente montanaro con la passione della caccia, riuscì a far adeguare i fedeli alla nuova realtà.

In ogni caso, don Elio ha cercato sempre di rendere il meno possibile traumatico il passaggio dallo sloveno all’italiano, dimostrandosi non solo tollerante nel mantenimento delle tradizioni religiose in genere bensì dando ampio spazio agli anziani che volessero mantenere i canti in uso fino ad allora.
Egli introdusse gradualmente il canto in lingua italiana insegnando alcuni brani popolari ed orecchiabili che ancora oggi sono eseguiti con particolare devozione.
Narra il teste Tonut Ierep, cl. 1913, che nei periodo che precedette la II Guerra mondiale, quando Rodda contava ben settecento abitanti, don Elio organizzò un coro alla grande, con giovani cantori, maschi e femmine, in quantità e volume di voci impressionanti.
Purtroppo l’iniziativa ebbe un periodo molto breve di attività a causa del richiamo alle armi di tutti i giovani maschi e l’altrettanto negativa esplosione del servizio domestico (dikle) delle ragazze che si trasferirono in massa nelle grandi città, ove quasi tutte formarono la propria famiglia.

Don Elio Tracogna trascorse a Rodda tutto il burrascoso periodo della II Guerra mondiale, riuscendo con il buon senso a mantenere lontani dalla gente i nocivi estremismi che tanti danni produssero in altri paesi del comune.

Le quattro tempora ― Vilje

Durante questo periodo rimasero in uso le messe cantate in latino come pure la messa da requiem, tradizionalmente eseguita in occasione della Commemorazione dei defunti (2 nov.) e nelle Quattro Tempora.
La celebrazione delle Quattro Tempora è ancora oggi molto sentita e, messa cantata o meno, al termine di essa il sacerdote si ferma a pregare per i defunti dopo avere cantato il Requiem cui risponde il popolo.
Il Requiem , che ha melodie diverse, comprende l’implorazione per i defunti della parrocchia ed in alcune località anche il brano Dies irae dies illa . Fino ai nostri giorni, a Rodda come altrove sono rimasti in auge altri brani latini come il Miserere , che desta sempre grande commozione specialmente in occasione di funerali; il Te Deum Laudamus , che si canta normalmente alla funzione serale di fine anno accompagnato dallo scampanottio, infine il Veni creator spiritus a capodanno.
A Rodda, stranamente, non esiste memoria dei tre canti antichi tradizionali che erano eseguiti in tutte le altre parrocchie, vale a dire il Te dan je usega veseja/è giorno di grande gioia per Natale, Kristus je od smarti ustal/Cristo è risorto da morte , per Pasqua e l’altrettanto antico Na kolena dol padimo/In ginocchio prostràti , per la benedizione del SS.mo, tutti e tre oggetto di studio da parte di esperti musicologi e su cui ci soffermeremo in altra parte del libro.

Inseriamo qui i testi di due canti dedicati al patrono San Luigi.
Uno viene eseguito durante la processione mentre il secondo è un breve inno.
I motivi di entrambi i brani sono ben noti perché sulla stessa melodia sono stati composti i versi per il patrono di Brischis San Floriano.

Canto per la processione.
1) A te Luigi alziamo il nostro canto
a Te che esulti placido lassù.
Deh tu ascolta o nostro grande santo
o tu Luigi morto per Gesù.

Rit.
O San Luigi
nostro protettor
accogli il nostro cantico
gradisci il nostro amor (bis).

2) Tu sei colui che amò tanto i fratelli
e la sua vita a loro lui donò.
Noi ti preghiamo per la santa chiesa
tu ci insegnasti a vincere o morir. (rit.).

Inno a San Luigi.
Benedetto nei cuori risorge
il tuo nome Luigi che suona
dalle sacre vestigia rintrona
il tuo nome Luigi quaggiù.
(rit.) O Gonzaga, purissimo giglio
germogliato ai divini fulgor /
tu rinserra nei giovani cuori
l ‘amor santo, l’austera virtù.


Le relazioni con Brischis

La vastità del territorio della parrocchia creava non pochi disagi agli abitanti delle frazioni poste più in basso per recarsi alla chiesa di Rodda alta, tanto da indurre parecchi fedeli a servirsi della chiesa di Bnischis, specialmente per la sepoltura dei defunti.
Era inevitabile che i canti ivi appresi, si diffondessero rapidamente a Rodda.

Trascurando le date che non rivestono grande significato, a don Elio si sono succeduti via via don Giuseppe Ribis, dei Gesuiti, l’allora parroco di Brischis prof. Faustino Nazzi, che la ebbe in cura ad interim, don Ferro, Don Luciano Bassi, p. Marino Vit, don Pierino del Fabbro ed infine l’attuale parroco d. Federico Saracino.

Tutti questi sacerdoti, nessuno escluso, con il passare del tempo e la presa di coscienza dei valori linguistici locali, stimolata in prima persona dall’Arcivescovo di Udine mons. Alfredo Battisti, hanno fatto grandi passi e speso molte energie per cancellare dalla mente della gente il complesso di inferiorità creatosi attorno al dialetto sloveno ed al suo canto religioso.

Furono introdotti invece alcuni inni ben noti in tutto il Friuli quali A te l’inno Immacolata, Dal tuo celeste trono, E’ l’ora che pia, Benediteci o Signore, Tu sole vivo, il canto processionale Noi vogliam Dio , come pure A te Luigi alziamo il nostro canto , altrettanto solenne dei precedenti, con l’ulteriore merito di accrescere la devozione al santo protettore Luigi Gonzaga.
Per la precisione il titolare di Rodda è san Zenone che, sembra, non goda di particolare seguito, quasi fosse stato imposto da qualche confraternita che a Rodda aveva possedimenti, e non a scelta dei fedeli, secondo l’uso.
In ogni caso, per la gente della valle il patrono di Rodda con relativa sagra ed inni appositi, è e rimane San Luigi Gonzaga, morto nel 1591 e la cui festa si celebra il 21 di giugno.

Le organiste sorelle Petricig

Durante le ricerche di testimonianze sul luogo, in una domenica di luglio del 1998, abbiamo avuto la fortuna di incontrare al termine del rito religioso sostitutivo della S.Messa, le sorelle Valentina e Angela Petncig di Rodda Alta, entrambe diplomate in pianoforte a Bologna previ precedenti studi iniziati a Trieste.
Le due sorelle sono conosciutissime in tutte le valli, anche per avere composto alcune canzoni in dialetto che ormai fanno parte del nostro patrimonio canoro.
Citeremo solo come esempio
Nedeja pred cerkvijo/domenica sul sagrato e
Tata ukupime violin/Papà, comprami il violino.

In questa circostanza le disponibilissime sorelle ci hanno consentito di registrare un ulteriore inno al Patrono San Luigi da eseguire in processione e ci informano che attraversando tutti i marosi e superando le ingiurie del tempo, sono rimasti a galla tre canti in dialetto sloveno che sono eseguiti ancora oggi e precisamente (ovvio, si potrebbe dire) il notissimo Liepa si roža Marja , l’inno a Maria Ausiliatrice, Marija skuoz živlenje/Maria attraverso la vita , ed il canto funebre che si esegue per i defunti Nobedan na vierie, nobedan na vie/Nessuno ci crede, nessuno lo sa .


Quest’ultimo brano merita una particolare attenzione perché compare sulla rivista della Società Filologica Italiana “Ce fastu?” del 1949, quale contributo in una ricerca fatta dal maestro Ettore Specogna di Erbezzo, dal titolo Il pane dei morti (vedi Erbezzo).

Per la curiosità di qualche lettore va detto che il titolo della rivista si riferisce ad un giudizio espresso dal sommo poeta Dante sul parlare friulano di cui nel De vulgaris eloquentiae , riporta la frase: ... eructavit “Ce fastu?

Alcuni nomi di cantori e poeti



A seguito dell’incompleto elenco di brani, in voga e decaduti, cercheremo di riportare alcuni nomi di persone che nel canto religioso, si sono maggiormente distinte per impegno ed assiduità.
In questo non facile compito che comprende sempre il rischio di antipatiche omissioni, ci sarà di aiuto il già citato Tonut, simpaticissimo personaggio conosciuto in tutta la valle.
Tonut accenna alcuni motivi della sua infanzia e gioventù nel periodo di pre Tita Cruder, quando gli anziani cantori avevano la prerogativa di intonare i canti della tradizione ed un posto fisso sopra il ballatoio posto all’ingresso della chiesa.

Di questi normalmente dodici anziani, simboleggianti gli apostoli, Tonut ne rammenta bene il nome, il casato e le fattezze fisiche.
I sei ricordati dal nostro interlocutore furono:
Berghignan Giovanni, Potokinov;
Giuseppe Saccù, Sakoličovi;
Antonio Morielaz, Batojkih;
Antonio Mucig, Zetaj;
Alessandro ed Antonio Zuanella, Žuanela;
Antonio Sturam, Klemenovi.

Non va dimenticato che Rodda è terra di poeti, come il carabiniere Domenis che dedicò alcune strofe al neo sacerdote Valentino Birtig, anche egli poeta sotto lo pseudonimo di Zdravko da lui scelto, come amava narrare, dal latino del suo nome Valens che significa sano, da cui Zdravko.
A questi poeti va aggiunto, anche se non nativo di Rodda, don Pietro Podrecca di San Pietro, cappellano a Rodda quando compose la notissima Predraga Italja, preljubi moj doml -Carissima Italia, carissima patria mia.
Sacerdoti di Rodda furono don Giovanni Domenis e di Rodda Alta è nativo don Giuseppe Mucig, parroco di Gagliano nonché canonico della Insigne Collegiata di Cividale.

Lo studente di Lubjana

Don Giuseppe conosce molte cose anche se la sua anzianità è relativa.
Egli ricorda il fatto singolare della presenza a Rodda durante la guerra, di un giovane studente di Lubljana particolarmente attivo al recupero dei canti in lingua slovena.
Il parroco di allora, don Elio Tracogna, tollerante ed attento all’evolversi della politica italiana completamente allo sbando, lo lasciò fare di buon grado, gli diede anzi il suo appoggio e così per un certo periodo a Rodda risuonarono in chiesa i canti dei nonni.
Chi fosse questo studente, che ovviamente avrà avuto le sue buone referenze, non è dato sapere con precisione ma, con le conoscenze storiche venute gradualmente a galla, sappiamo che i comandanti partigiani marxisti/Leninisti, trascinavano davanti ai tribunali del popolo chiunque fosse sospettato di avere collegamenti con l’occidente.
In questo modo furono colpiti quasi tutti i preti che, per il fatto di dipendere dalla chiesa di Roma, erano considerati quinte colonne o spie del Vaticano. Quasi tutti i sacerdoti della vicina valle dell’Isonzo, ebbero la palma del martirio per la fedeltà verso la Chiesa Cattolica. Non c’è quindi da meravigliarsi che lo studente, devoto e cattolico, possa essere stato un seminarista di Lubjana che si sentiva minacciato. Queste sono le uniche tracce della sua permanenza a Rodda anche se rimane la convinzione che il frutto delle sue ricerche sia depositato fra le scartoffie della chiesa di Rodda, rimasta per parecchi anni alla mercè di chiunque. (M.Tore Barbina Quattro pergamene (Udine 1982).

In unione con Brischis

L’accorpamento di fatto con la parrocchia di Brischis avvenuto durante la cura pastorale del parroco don Nazzi, non ebbe reazioni di rilievo dati i precedenti movimenti di attrazione volti al fondovalle.
Valga per tutti l’esempio di don Antonio Domenis morto nella sua casa di Domenis, la cui lapide commemorativa redatta in lingua slovena era visibile nel cimitero di Brischis.


Il risveglio che il dinamico giovane parroco produsse a Brischis ebbe rapida ripercussione a Rodda tanto che anche San Zenone fu dotato di un armonium De Marchi alla cui tastiera sedevano le citate sorelle Petricig, organiste ambulanti.

Attorno all’armonium si raccoglievano giovani e meno giovani, in un crescendo di attività canore di tutto rispetto con l’introduzione di messe cantate e nuovi brani mutuati dalla contermine parrocchia di Brischis, molto spesso in fusione di voci fra loro.

BRISCHIS

La parrocchia di Brischis si estende per ben sette chilometri lungo la statale 54 ed il fiume Natisone e comprende in questo percorso pianeggiante gli abitati di Perovizza, Brischis, Malin, Pulfero, Loch, Linder, Stupizza per terminare con la caserma del valico confinano italo-sloveno.
Vi fa parte il capoluogo stesso del comune, sede di tutti i servizi eccetto quello religioso; ciò dimostrerebbe che l’abitato di Pulfero è sorto attorno alla barriera doganale posta al traffico stradale tra la repubblica di Venezia e l’Impero austroungarico, atto a svolgere le mansioni richieste dal valico, quali il servizio postale, il cambio dei cavalli, il pagamento del pedaggio, alberghi e ristorazione, ecc.
Il nome stesso, Pulfero, deriva dalla parola tedesca “Puffar”, che significa barriera, sbarra, appunto.

La chiesa di Brischis dedicata a San Floriano martire è molto antica, risalente a data anteriore al 1477 quando fu ampliata e ristrutturata dal Maister Andre von Lach come testimoniato dalla lapide posta sulla facciata; un ulteriore ampliamento e rinnovo della pavimentazione furono eseguiti tra il 1713 ed il 1718.

Gli abitanti dei paesi ricadenti in questa parrocchia sono di svariata estrazione sociale per effetto delle funzioni da loro svolte quali l’amministrazione del comune, le scuole, il commercio, gli studi tecnici privati, l’ ambulatono, la farmacia, la gestione doganale del valico di Stupizza ed altro.

Preti sotto pressione

Per questi motivi, è quasi ovvio quindi che la parrocchia di Brischis sia stata la prima ad essere sottoposta a forti pressioni ed adeguate strategie affinché abbandonasse l’uso della lingua slovena dalle funzioni e dal canto liturgico, motivandole appunto con la presenza di numerosi fedeli di madrelingua italiana.
La prima vittima di questo piano fu don Antonio Chiacig, cappellano dal 1913, il quale ebbe la canonica devastata tanto da essere costretto ad andarsene altrove.
Lo sostituì il più malleabile don Giuseppe Chiacig suo omonimo che però all’inizio della Grande Guerra andò soldato e vi ritornò per il breve periodo dal 1919 al 1923, quando lasciò il posto a don Giuseppe Jussig di Azzida, sostituito a sua volta nel 1936 da don Ascanio Micheloni di Buttrio, che fu il primo prete di Brischis estraneo alla Slavia.
Resistette per poco tempo don Ascanio in una canonica disastrata e fra gente che non comprendeva nel suo dialogare.
Il giovane e simpaticissimo don Giacomo Londero che venne a sostituirlo nel 1939, di famiglia gemonese ma proveniente da Tolmino dove il padre svolgeva una pubblica mansione, che amava intrattenersi anche in lingua slovena nel dialetto dell’Isonzo, subì ingiuste calunnie che lo amareggiarono e lo costrinsero a cambiare aria.

Il lungo elenco dei preti di Brischis prosegue con l’arrivo di don Carlo Zanon di Gagliano il quale, occupandosi più dei suoi canarini che dei vecchi canti sloveni, ebbe vita relativamente facile, tale però da portarlo alla incomprensione tanto da abbandonare, insalutato ospite, la sede del suo ministero.
A proposito della sua passione per i canori volatili, si narra che costatando la sempre più ridotta partecipazione dei fedeli al vespero della domenica, don Carlo, usasse portare in chiesa una gabbia di canarini commentando:
gAlmeno essi, con il loro canto melodioso daranno lode al Signore”

A don Zanon succedette il 5Oenne don Pietro Cernoja del vicino paese di Cras proveniente da Cialla di Prepotto.
Don Pietro, salvo le riserve verso la sua origine ed i suoi precedenti di fedeltà alla propria lingua materna, fu ben accettato anche dai pochi sospettosi riluttanti, quando questi ebbero modo di apprezzare l’imparzialità, la saggezza, la bontà d’animo e la fedeltà alla vocazione sacerdotale di don Pietro. Fino alla sua scomparsa.

Un prete vulcanico

Il vulcanico, giovane prete che giunse a Brischis nel 1966, sembra avesse avuto modo di dimostrare già in seminario una forte propensione al rinnovamento di una Chiesa che stentava a trovare le vie nuove che il Concilio Vaticano II andava proponendo. Don Nazzi seppe far avvicinare alla chiesa tutta la gioventù della parrocchia e dei paesi vicini, facendoli cantare in modo nuovo, sfruttando tutte le capacità sommerse, organisti, direttori di coro, cantori, sostituendosi a loro in caso di necessità anche durante la messa da egli stesso celebrata.

Il colpo da maestro del giovane prete fu l’allora sensazionale introduzione in chiesa di canti moderni accompagnati dalla chitarra. La presenza di questo strumento galvanizzò talmente la gioventù, da coinvolgere anche gli anziani e far accettare loro l’innovazione.

In chiesa si canta con la chitarra

L’idea della chitarra nacque quasi occasionalmente, quando un gruppo di giovani della parrocchia, partecipando ad Assisi ad un convegno dal tema “L’obbedienza non è più una virtù”, ebbe modo di udire le esibizioni canore di un gruppo animato da un nome allora ben noto, un tale Giombini che eseguiva salmi davidici attualizzati di gran presa ed effetto sull’uditorio prevalentemente giovanile.

Avvalendosi della buona conoscenza della chitarra da parte di un giovane maestro trentino, Claudio dalla Giacoma, stabilitosi a Pulfero, l’iniziativa fu ripresa e trasferita in loco con gran successo fra i giovani e perplessità nei preti del circondario.

A Brischis esisteva una tradizione canora di tutto rispetto tramandatasi attraverso la voce trainante di Carolina Gubana che organo o no, intonava i motivi tradizionali del passato quali l’inno all’Ausiliatrice: “Maria skuoz živlenje/Maria attraverso la vita” , infischiandosi delle occhiate di disapprovazione di poche persone.
Va menzionato il non meno attivo suo marito, sacrestano ed organista all’occorrenza.
In alcune occasioni compariva il violino del maestro Mario Manzini che con le dolcissime note del suo inusuale strumento, era in grado di suscitare particolari emozioni fra i fedeli.

Coristi ed organiste

Con il nuovo parroco, nelle grandi occasioni quali la sagra del patrono san Floriano, a Natale, Pasqua, Capodanno, si riprese a cantare la messa del Tavoni con l’ accompagnamento dell’ armonio dedicato a don Pietro Cernoja, al cui acquisto aveva partecipato tutta la parrocchia.
Il giovane organista Augusto Ghiraldo, figlio del maresciallo dei carabinieri, attivo nel periodo di don Zanon, era emigrato in Sudafrica e fu sostituito di volta in volta da suonatori occasionali, sovente dalla sig.na Claudia Qualizza della parrocchia di Lasiz, più frequentemente dalle sorelle Angela e Valentina Petricig di Rodda alta, al cui trasporto, essendo esse non vedenti, provvedeva lo stesso parroco.
La bacchetta era affidata a Dino Blasutig di Pulfero mentre gli assoli erano eseguiti con voce sicura e squillante dalla compaesana Lisetta Manzini.

Elenchiamo di seguito i nomi di alcuni coristi rimasti nella memoria dei ragazzi di allora.
Oltre ai già citati, va data menzione alle sorelle Anita e Adina Blasutig, al loro nipote Piergiorgio, Angelo Salvagno, Renata e Stefano Pussini, Ave, Paolo e Biancarosa Jerep, Giovanni Specogna, Nicola Marseglia, tutti di Pulfero; ai fratelli Gubana Flipičovi, Franca e Nives Birtig, Clara Chiabudini di Brischis.
Folto il gruppo di Loch e Linder con in testa Graziano Crucil che fu l’unico a preoccuparsi affinché non fossero abbandonati i canti del passato, come onestamente segnalato dal parroco nel suo libro (Le comunità di Brischis e Rodda - ed. Proposta Brischis 1970).
Assieme a Graziano da Loch e Linder, provenivano le belle voci di Liliana Specogna, di Renato Juretig ed altri.

L’avvicendamento dei preti

Dopo questo esaltante periodo terminato con la partenza del parroco, i sacerdoti succedutisi, tutti per brevi periodi, hanno cercato di amministrare la situazione lasciata dal predecessore, testimoni di grandi cambiamenti nel costume, nella forma di vita, nella pratica devozionale e nell’uso del canto.

Attraverso questa chiesa negli anni ‘40 passavano comunque tutte le innovazioni canore che si espandevano nelle parrocchie vicine.
Valga quale esempio il canto “O Gesù re dei cuori e del mondo” che terminava con l’acclamazione adeguata ai tempi “... nostro re nostro duce Gesù” oppure quello pervenuto nel periodo dello sbarco degli Alleati in Sicilia, nel 1943, quando in chiesa si implorava: “Dio di clemenza, Dio Salvator, salvate l’Italia nostra pel vostro Sacro Cuor”.

Una organista fissa

Grazie alla diffusione della cultura musicale, in particolare tramite la scuola Glazbena Matiza di San Pietro, la comunità di Brischis è riuscita ad avere con continuità l’avvicendamento all’armonium, in particolare con le prestazioni della giovane Elena Domenis, Škofičova di Pulfero, allieva di Nino Specogna.

Giungiamo così ai nostri giorni con la chiesa di Brischis dotata di una organista fissa nella persona di Ines Birtig.
La volenterosa ragazza ha iniziato timidamente ad usare l’armonium De Marchi nel 1976 grazie agli insegnamenti delle sue prime maestre le sorelle Petricig di Rodda, quindi alla scuola diocesana diretta da don Albino Perosa ed infine presso la Glazbena Matica di San Pietro, diretta dal prof. Nino Specogna. Contrariamente all’aspetto che potrebbe nascondere una innata timidezza, l’organista Ines è capace di impostare la scaletta di accompagnamento delle varie funzioni ordinate secondo il calendario liturgico e guai a chi la contraddice / Essa, con grande disponibilità, ha trascritto per questa pubblicazione tutte le partiture, adattate al modo di cantare locale quando sono d’autore od eseguite diversamente in altri luoghi.
Una parte di queste partiture, le più significative, saranno riportate nella parte prettamente musicale del libro.
Elenchiamo i canti trascritti da Ines:

Avvento Vieni Signore ;
Natale Nenia basca, Stelle in cielo, Adeste fideles ;
Quaresima Signore ascolta, Gloria a Cristo ;
Settimana santa Mistero della cena, Via Crucis, Signore dolce volto, Venite al Signore, Alleluia, Il Signore è la luce ;
Pasqua Nei cieli un grido risuonò, Acclamazione alle letture, Cristo risusciti, Canto per Cristo, Ti ringrazio ;
Comunione Amate vi fratelli, Come il cervo, Alleluia, Padre nostro;
Varie Inno a san Floriano


Alla impertinente domanda:
“In dialetto sloveno non eseguite nulla?”
giunge pronta la risposta.
Di sorpresa infilò:
”Liepa si Liepa/Bella sei bella ,
Marija mati jubjena/Maria madre amata ed a Natale il
Te dan con riscontro sempre positivo, anzi, talvolta esultante da parte dei fedeli, anziani e giovani”.
Quasi a bilanciare l’ardire, Ines aggiunge:
“Da quattro anni, alla messa per commemorare i caduti, il 4 novembre, intono in chiesa l’inno nazionale “Fratelli d’Italia”.

Le preghiere cadenzate

Per avere un quadro il più possibile completo dell’argomento di cui trattiamo, non va dimenticato il canto o la preghiera cadenzata che si pratica fra le mura domestiche.
Gli esempi da riportare sono numerosi e sullo stesso tema variano da paese a paese e da famiglia a famiglia, secondo le modificazioni e le storpiature che la trasmissione a voce comportano.

Per la parrocchia di Brischis siamo andati a Stupizza, il paese più distante ed isolato dal resto della comunità ma non per questo meno presente nelle iniziative di vario genere che sono proposte dal consiglio parrocchiale.
Sapevamo già che la signora Valentina Crast, meglio conosciuta come Nina, possedeva nello scrigno della sua buona memoria alcune preghiere cadenzate che di buon grado ci ha consentito di registrare ancora nell’anno 1992 ed ora ritornano utili come documentazione.
Escludendo i canti profani, riporteremo quelli di carattere religioso.
I brani sono:

1) - “Sveti petak božji dan
kie rje Ježuš lovjen,
par stabre parvezan
s šibo je šiban
z gajžlo je gajžlan
s tarnovo krono kronan biu.
Ježuš Detce muoje,
tvoje svete rance
Pokrju je svete dance
po vojo kri.štjansko
Deb’ se an človek znajšu
tolo piesanco zapjeu
usaki petak trikat
tri dušice riešu
uonkaj vicah.
Parva je bila očna,
druga materna Treča pa suoja.

Venerdì santo giorno del Signore
quando Gesù fu arrestato
legato alla colonna
colla verga flagellato
col manto ricoperto
Con la corona di spine incorona.
Gesù, bambinello mio
le tue sante piaghe
nascoste dal santo giorno,
per volontà cristian
che se un uomo si trovasse a cantare questo canto,
ogni venerdì tre volt
tre anime salverebbe dal purgatono.
La prima del padre, la seconda della madre
terza la sua.

2) Angelac varuh muj’ -L’Angelo custode
kuazu dol legint - gli ha ordinato di coricarsi
tarduo zaspat, - addormentarsi profondamente,
nobednega se ga bat - non temere nessuno
tri Angelce mene pošjat - mandare da me tre Angeli
te parvi me bo špižu - il primo mi darà alimento
te drug me bo vižu - il secondo mi custodirà
te treč me parpeje če pred - il terzo mi condurrà
svet paradž. - al santo paradiso.
Tan je na mizca armena - la c’è un tavolino giallo
Na njo tri jogri sedjo - attorno vi siedono tre apostoli,
za vierne duše prosejo - per le anime dei credenti pregano,
na duša parteče - all ‘anima che giunge
Marija takuo reče - Maria così dice:

“Prašajte dušo - chiedete all ‘anima
kode j’ hodila?” - “Dove hai camminato?” Po kamnitih gorah - Sopra monti rocciosi
po gorečih lunjah - sopra lune roventi
po svietin materni čarni zemji - sopra la materna terra nera
Svet anjul / Čarni hudič - Angelo santo / Nero demonio,
tala duša nie za te - Quest’anima non è per te.
Tri molitve štiet, srečan človek - Tre preghiere, l’uomo
sej’ navadu - fortunato ha imparato
Srečno teluo, k’ so navadli - beato il corpo che ha imparato
Zak muore usak znat, - che deve ognuno sapere
če ne na telin sviete - perché anziché a questo mondo,
na druzin sviete - nell’altro imparerà
se bo teàži učiu. - più difficilmente.
Zasvietin človek san biu - Sono stato uomo mondano,
usako sveto saboto - ogni santo sabato,
usako sveto nedejo jutro - ogni santa domenica mattina,
na tašč sarca, - col cuore digiuno,
za nebesa odpriet - per aprire il paradiso
an paku zapriet - e chiudere l’inferno,
de se bo na nebesih veseliu. - perché possa godere il paradiso.


“Da chi avete appreso queste preghiere?”, è la mia domanda.
“Da mio nonno che rimase cieco per quindici anni raggiungendone novantacinque.
Vai a chiamare i bambini, mi diceva, oggi racconterò le fiabe.
Prima però ci faceva pregare tanti Pater noster e tante Ave Maria ed una preghiera particolare come questa:”

3) Duor bo narguoràš - Colui che sarà
tovariš muoj - il mio migliore amico
Me bo uon s hiše veganju - mi caccerà di casa.
O le uonkaj z njin / Ole uonkaj z njin - Esci da lui / Esci da lui /
Saj tuo teluo smardlivo - che questo corpo è puzzolente.
Tan u čarni zemji - Nella terra nera ci sono
so dromni čarvie - piccoli vermi
Ki mene bojo jedli - che mi mangeranno.
Po muojih možgjeh, - Nel mio cranio,
po muojih kostjeh - nelle mie ossa
Kamberce bojo imieli - avranno le loro stanze
O Ježuš muoi, o Krištuš muoj, - O Gesù mio, o Cristo mio,
sprimi gor muoio dušo - accogli lassù l’anima mia.


Uscendo dalla casa di Nina, osservando le piccole casette di Stupizza, ho pensato che se un paese possiede così ricche radici spirituali, non sarà mai povero.

MONTEFOSCA

Una lunga storia

Dal punto di vista del servizio religioso è una storia lunga e tormentata, risoltasi solo grazie alla caparbietà che ha sempre caratterizzato questi fieri montanari.
Ne sanno qualcosa a Pulfero, quando nel 1938 le arrabbiatissime donne scesero a protestare presso il comune per la concessione di una sorgente a favore del paese di Prossenicco, invasero la sede municipale, gettando dalla finestra carte, mobili, macchine da scrivere e tutto ciò che capitava loro sottomano, fosse anche l’impiegato comunale.

In realtà, la comunità di Montefosca, ampliatasi negli anni precedenti, era strettamente legata alla parrocchia di Erbezzo da cui dipendeva dal punto di vista ecclesiastico.
Ad Erbezzo si celebrava la messa, si tenevano le funzioni pomeridiane domenicali, erano imposti i battesimi, celebrati i funerali, insegnato il catechismo, ad una distanza via sentiero non inferiore ai 25 minuti.
I disagi cui erano sottoposti i fedeli, specialmente durante l’inverno, con il sentiero innevato reso impraticabile, sono immaginabili.
Molti anziani in difficoltà nel camminare, venivano esclusi dalle celebrazioni sacre, così pure i bambini in tenera età.
A Montefosca, priva di chiesa, mancava quindi anche una propria tradizione di canto sacro che non fosse quello in uso ad Frbezzo.

La lotta per la chiesa

Il cappellano di Erbezzo don Luigi Clignon di Cicigolis, in concordia con il parroco di San Pietro don Muzzig, si era sempre opposto al frazionamento delle due comunità, vuoi per ragioni logistiche, pratiche, ma anche economiche.
Ciononostante i decisi abitanti di Montefosca, già nel 1900 iniziarono la costruzione della chiesa, infischiandosi dei veti e delle minaccie provenienti anche dalla curia udinese. Mons. Ivan Trinko scrive su Beneška Slovenja:
“1912. Da pochi anni piccola chiesa con cimitero”.

Nel 1926 venne costruito il campanile e nel 1935 la chiesa, dedicata all’Annunciazione della B.V. Maria (25 marzo), fu ampliata e terminati i lavori.
Mancava la consacrazione che avvenne finalmente nel 1931.

Anche le autorità civili incominciarono ad accorgersi della grossa realtà costituita da Montefosca tanto da indurre il comune di Pulfero appena costituitosi, a toglierlo dall’isolamento, procurando i finanziamenti per la costruzione di un ponte pedonale sul Natisone a Stupizza, fino allora attraversato a guado quando l’acqua bassa lo consentiva.

“Trattandosi di territorio della nostra cappellania, annota don Cuffolo il 14 ottobre 1928 è stato oggi solennemente benedetto dal cappellano di Lasiz. Molta gente ma nessuno di Montefosca per non pagare la bicchierata ai fascisti” conclude con una punta di ironia.

La consacrazione con le gubane

Ancora sul diario di don Cuffolo, possiamo leggere:
“Oggi 11 settembre, consacrazione della chiesa e dell’altare di Montefosca.
Con l’arcivescovo Nogara 12 sacerdoti e 12 chierici.
Tutta la Valle è salita su.
Così oggi ha avuto termine lo scandaloso scisma durato per tanti anni con la vittoria dei montefoschini.
Avranno messa ogni domenica e prevedono di avere anche la cappellania.
Hanno festeggiato la loro vittoria col massimo sfarzo, chiamando cuoche da Lasiz che hanno confezionato 50 gubane solo per gli invitati”.


Sarebbe utile che questa nota fosse conosciuta da alcune persone di Gorizia e Trieste che rivendicano la primogenitura sul nostro dolce tipico.
Non credo che in altre parti la gubana sia talmente radicata come da noi in ogni celebrazione, lieta o triste, e faccia quindi parte integrante del costume locale.

Il primo cappellano

A lavori ultimati, con la chiesa consacrata e sacramentata, la curia di Udine inviò nel 1938, quale primo cappellano il giovane sacerdote novello don Giuseppe Rojatti di Faedis, graditissimo dai giovani che nell’uso della lingua italiana da lui proposta, videro uno spiraglio di quella “superiore civiltà latina” che il regime fascista andava propagandando con ogni mezzo.

Non era questo ovviamente il proposito del giovane sacerdote, che dovette rispolverare le nozioni di lingua slovena apprese in seminario per riuscire a dialogare con i molti anziani che non conoscevano la lingua italiana e si appressavano al confessionale in cui ci fosse un prete slavo.

In questo grosso abitato che nel 1935 contava 554 anime, posto su un altopiano fuori dalle vie di comunicazione che non fossero i sentieri di collegamento fra i paesi posti in quota lungo i contrafforti che si affacciano sulla pianura friulana, si avventuravano studiosi e ricercatori che pubblicavano sui trattati di antropologia fotografie e descrizioni di persone quasi si trattasse di uomini preistorici.

Il carattere della gente

La gente di fondovalle invece, che aveva contatti con essi, sapeva quanta intelligenza, astuzia e adattabilità agli innumerevoli disagi si nascondessero sotto quell’ aspetto semplice e dimesso.
In un paese dai pochi cognomi, dove la rete di parentela era fittamente intrecciata, esisteva una impensabile reciprocità di mutuo soccorso in caso di bisogno.

Fra la gente c’era chi sapeva curare con medicine tratte dalle erbe, dalla terra, dagli animali; l’ingegno sapeva far integrare il reddito dall’allevamento degli animali quali gli eccellenti prodotti caseari, la carne, la lana.
Producevano tanto legname e dalla ramaglia di scarto ricavavano la carbonella allora molto richiesta dai fabbri per alimentare la fucina, dai sarti e dalle famiglie per riscaldare il ferro da stiro trattandosi di un combustibile che produceva calore privo di fumo.

La gente di Montefosca è gente allegra, vivace e ricca di inventiva oltre che predisposta alla narrativa.
Numerose leggende collegate a esseri mitologici, sono sorte proprio qui e da qui molti motivi musicali profani si sono propagati nei paesi vicini.

La narratrice Mjuta ŠkIanzova

Vale la pena ricordare la Mjuta Specogna, nativa di Montefosca e maritata a Specognis, che ha fatto riempire al nipote Don Antonio Cuffolo parroco di Lasiz, interi quaderni di leggende, canti profani e religiosi, questi ultimi nella forma del latino storpiato, che sono la delizia degli studiosi di etnologia.
Valga per tutti, rimanendo in tema di canto religioso, il “Dies Irae” riportato in grafia slovena da A. Cracina nel libro “Gli Slavi della Vai Natisone” Del Bianco Ud. 1978.
La melodia del Dies illa dies irae è quella nota del testo latino originale.
Lo trascriviamo privo di traduzione che risulta impossibile e lo priverebbe di significato e freschezza.

Dije sila, dije sjero
salve sekul an savilo
testi David kum sabilo

Kuando stremo loskonsuro
kuando judic ses vinturo
bono strito deskonsuro

Turbo mjero peransono
persa porto regijono
venga Domine santo trono

Mor sabebit to naturo
kua lusurja kreaturo
judikanti reskonsuro

Libro skrito preferito
Rekuitati kondineto
judilmondo judilceto

Judilsekue non sedebit
miko tlabit taparebit
mika mondo remanebit

Kua jezère tondelturo
kuej patrono ragaturo
konvjostra sem sakuro

Lastra menda ma je stata
kuej salvanda salva gracje
salva meis kompietatis.

Rekordare Jezu pijo
kua inkauza tua vijo
me aperlo sola dijo

Kua rameso distilata
roza misti roza pasa
sonso labra sonso kasa

Iusti judi salicjone
anjo se keremisjone
ante dije gracjone

Anjo misko tankorebus
golus roubus golus meus
sulpicante parcadeus

Vi Marijamat zauriste
et ladrone me zavist
/miki kuakue ledemiste

Precis meis nonsum dinjo
facin bono za beninjo
mjape renjo kramarenjo

Into roubo lahompresta
intaneva mizerkuesta
statu oksa parcadesta

Konsutatis maladitis
anjufak ramuraditis
moka mekum beneditis

Gorje su par svetin klino
kua kontrito kua zicino
vjerakura majafinis

Sakramuzadije sila
huala surget resta vila
judikanti omorebus

Miga karga parcadeus
pije Jesumdomine
danajst rekijem.Amen.

I canti registrati dalla RAI

Attualmente è ben difficile trovare sul posto qualche testimonianza del canto religioso a Montefosca.
Ci soccorre però il volume “Le tradizioni popolari degli sloveni in Italia” Trieste 1976 che Paolo Merkù, per conto della Rai di Trieste, raccolse su nastro in numerosi anni di peregrinare attraverso le città ed i paesi della nostra regione ove si parla il dialetto sloveno.

Il libro riporta ben sei brani di carattere religioso e precisamente una variante del diffuso canto natalizio
“Poslušajta usi krištjani - Ascoltate cristiani tutti” , che l’ignoto sessantenne informatore di Montefosca disse di avere imparato dalla madre.
Segue
“Tan gorj’ adna gora - Lassù c ‘è un monte” , canto che i bambini eseguivano pascolando pecore e capre.
“Sveta Manja prosi Boga za nasi Santa Maria prega Iddio per noi” era cantata in chiesa con le litanie per ottenere la pioggia.
“Oj Mania Roiinca - O Maria del Rosario” si cantava in chiesa per la festività dell’Assunzione;
“Parva ura bila lei Suonò l’una” è invece un canto dei pellegrini che si intonava in vista della meta, che poteva essere Castelmonte, Lussari, Montesanto, San Antonio di Caporetto, Barbana od altri luoghi di culto verso i quali ogni paese era vincolato da un voto/objuba.
“Svet kelih pred svetin oltarjen stoji - Il santo calice sta davanti ai santo altare” comprende nove brevi strofe che l’informatore apprese dal nonno.
Di una sola strofa è composta
“Mašnik požegna bieli kruh/ - L’officiante benedice il bianco pane” ed infine
“Sveta Barbara / Santa Barbara” che i bambini cantavano per propiziare il bel tempo.

La cantoria di don Rojatti

Esaminato il passato canoro di Montefosca, ci rifacciamo all’arrivo di don Rojatti, che raccolse attorno a sé le persone intonate e formò una cantoria che raggiunse mete entusiasmanti.
Ben presto fu imparata la messa del Tavoni e quindi del Tomadini ma, senza l’accompagnamento di un annonium, era impossibile ottenere risultati completi.
Ecco allora, narra il testimone cav. Ettore Cencig, che
“nei 1936 andavamo ogni domenica per il paese a raccogliere i soldi; le offerte variavano secondo le possibilità delle famiglie, da centesimi cinque, dieci, venti, cinquanta, oppure da uno a tre uova. Per darci il cambio avevamo formato tre coppie: Mario ed io, Ettore; Alberto e Geremia infine Mario III e Giuseppe”.


La buona memoria di Ettore non si limita a questi sei nomi: egli ricorda tutti i componenti della prima cantoria che vanno menzionati di diritto.
Essi sono:
Antonio Cencig - Mežnar,
Giovanni Zantovino - Juan ,
Giovanni Cencig - Tonzar,
Lina e Narciso Cencig - Leban ,
Giobatta Cencig - Arveneš ,
LuigiZantovino - Perošku,
Fiorina Justo e Luigi Cencig, - Uaz,
Gma e Rosa Cencig - Uštin,
Livia Cencig - Goraz,
Luigi Cencig - Tojaz,
Bruno Cencig - Roslnu,
Angelo Giovanni ed Alberto Laurencig - Balan,
Rina Specogna - Daneu,
Mario Cencig - Matoga,
Attilia Cencig - Kajanka,
Emilio ed Alessandro Specogna - Štief,
Angelo Cencig - Mon,
Giuseppe Cencig - Te gorenj.

Da uno di questi cantori, precisamente Berto Laurencig, definitivamente stabilitosi nel paese natio dopo lunghi anni di permanenza in Svizzera per lavoro, apprendiamo che la cantoria istruita da don Rojatti, veniva invitata a cantare in varie parrocchie come Lasiz, Faedis, Antro, ed a San Pietro al Natisone in occasione della grande sagra annuale del 19 giugno.
Il ragazzo di allora, Berto, era la voce bianca solista che cantava gli assoli della messa e l’Ave Maria di Schubert.
Egli ci dà conferma dei canti riportati dal citato prof. Merkù, si sofferma a descrivere la vivacità di Montefosca, composta esclusivamente da gente dedita all’agricoltura il che consentiva a tutti di partecipare in massa alle sagre paesane come la Madonna delle Grazie, San Rocco, San Valentino e Santa Lucia.

Mentre rivangava nei ricordi, il nostro ultra settantenne interlocutore non riusciva a celare la commozione di un passato ricco di spiritualità.

Ai nostri giorni

All’entusiasmo dei primi anni seguirono momenti di incomprensione con alcuni paesani, tanto da costringere don Rojatti a fare le valigie alla fine della guerra, nel 1946, per essere sostituito solamente un anno dopo da don Eliseo Artico, anch’egli friulano, rilevato a sua volta nel 1953 da don Eugenio Osgnach nativo di San Leonardo, che fu anche maestro di scuola elementare, senza avere dato peraltro alcun contributo al recupero dei canti tradizionali ormai passati al dimenticatoio.
Va dato merito, invece, al maestro supplente Giuseppe Chiabudini che seguendo le linee educative volte alla conoscenza del proprio territorio, suscitò l’interesse di molti scolari al canto mediante la ripresa delle melodie del passato.
L’onda lunga di quella iniziativa sta dando i suoi frutti oggi, a 30 anni di distanza.

Erbezzo

L’eccezionale posizione panoramica della chiesa di Sant’Andrea di Erbezzo, eretta sulla cresta del monte che chiude la valle del Natisone verso nord, ne fa quasi un simbolo della religiosità della gente del Natisone.
Un buon contributo a questa definizione è offerto dalla presenza, sull’ adiacente campanile, del sacro bronzo dal tono più grave e dalla dimensione e peso maggiori di tutte le campane delle valli del Natisone.
Il solerte sagrestano Mario Qualla che gentilmente ci accompagna sulla torre campanaria, afferma che la campana maggiore con nota Do, pesa da sola venti quintali mentre tutte e tre assommano complessivamente a cinquanta quintali.
I bronzi furono fusi nel 1920 in parte con il contributo dello Stato per danni di guerra, in parte con offerte e, per quanto riguarda il bronzo, tramite il recupero dei frantumi furtivamente sotterrati dalla gente in seguito all’abbattimento delle campane da parte dei soldati Austro Ungarici.

Il suono che le tre campane di Erbezzo propagano, è udibile lungo tutta la valle e in condizioni di vento favorevoli anche oltre, fino a Cividale.
Alla parrocchia ne deriva da ciò una fama che gli stessi promotori forse non si aspettavano tanto che dal volume del suono percepito, gli anziani della valle del Natisone traggono previsioni sul tempo ed auspici sul raccolto.

Il territorio e la microstoria della parrocchia

Dopo questa premessa di carattere sonoro, quindi relativamente in tema con la ricerca in atto, osserveremo in breve la composizione di questa parrocchia e le sue vicissitudini storiche, prima di passare al canto religioso di cui ci occupiamo.

La chiesa sorge in luogo isolato ma ricade nella sottostante frazione di Goregnavas.
Le altre frazioni sono Zapatocco, Calla ed Erbezzo, ovviamente.
L’edificio primitivo è databile verso la fine del 1500, dello stesso periodo quindi in cui furono erette le numerose chiese cosiddette votive esistenti nei dintorni.
Nel 1721 la chiesa fu restaurata ed ampliata per essere in grado di contenere l’aumentata popolazione.

Grazie ai capifamiglia che si impegnarono a provvedere vitto ed alloggio per il cappellano, nel 1851 fu sacramentata, ottenendo contemporaneamente il benestare dal comune di Tarcetta e dal parroco di San Pietro.
Il doppio riconoscimento consentì l’amministrazione di alcuni sacramenti ma soprattutto di provvedere alla sepoltura dei defunti nel locale cimitero anziché doverli trasportare come in passato ad Antro o Pegliano, lungo sentieri impervi e disagevoli.

Don Luigi Clignon di Cicigolis

Alla cura delle anime si avvicendarono vari sacerdoti locali, tutti per periodi molto brevi finchè nel 1890 giunse da Cicigolis, paese ricadente nel medesimo comune, don Luigi Clignon che vi rimase per oltre quarant’anni, fino al 1934, quando per vari motivi si ritirò a casa sua.

Pre Luigi, uomo dal carattere forte e deciso mantenne anche durante la prima guerra mondiale la predicazione, le funzioni ed i canti tradizionali nella lingua materna slovena e per questo motivo superficialmente considerato dalle autorità militari italiane un prete inaffidabile, dovette subire il confino.
Purtroppo anche allora come nel recente passato, si tende a confondere la nazionalità con la cittadinanza, poiché lo stesso don Luigi seppe dimostrare non solo la sua fedeltà alla patria italiana ma di considerarsene benemerito avendo pubblicamente condannato la diserzione di alcuni suoi parrocchiani mvitandoli a rispettare i loro obblighi verso lo stato italiano. (Dom Cividale n. 12 1998 pag.3).



La Via crucis come si prega ad Erbezzo

Nel 1923, a guerra terminata e con animo più sereno, pre Luigi pubblicò a Cividale una Via crucis “Takuo ki se mole u Arbeču / Come si prega ad Erbezzo” coerentemente scritta nel dialetto sloveno del luogo, utilizzando parzialmente la grafia italiana.
Al termine di ogni stazione della Via crucis, c’è un versetto dello Stabat Mater tradotto in dialetto secondo un’ aderenza testuale e poetica da porre don Luigi tra gli autori dialettali fra i pochi eccelsi: (Pietro Podrecca, Ivan Trinko).
Lo stesso Merkù (Jezik in slovstvo/lingua e letteratura 1971/72 n.l/2). Scrive:
“Il libretto di Clignon è l’unico che io sappia che in Benecija usa al livello più elevato il vivo dialetto. L’influsso dello sloveno letterario è ristretto ad alcuni vocaboli ecclesiali. In ciò il suo maggiore pregio”
Trascriviamo, sempre come esempio, alcuni versetti dello Stabat Mater tradotto in dialetto di Erbezzo, cantati secondo la melodia tradizionale.

Lo Stabat Mater

Lo Stabat Mater come noto è una sequenza, vale a dire una composizione liturgica che fa parte della messa dal IX secolo, scritta da Jacopone da Todi (12301306).
Le altre sequenze sono:
Victime pascali laudes (periodo pasquale);
Veni Sanctae Spiritus (Pentecoste);
Lauda Sion Salvatore di San Tomaso (Corpus Domini);
Stabat Mater (Addolorata);
Dies irae (Commemorazione dei defunti).

Ecco alcune strofe di Pre Luigi che si discostano notevolmente dalla traduzione in lingua slovena presente nel libretto di devozioni “Nebeški ključ”Molitve v videnski nadškofiji - Le chiavi del paradiso - Preghiere nell’arcidiocesi di Udine. Lubjana 1913, pag.52.
Si tralascia l’edizione latina presente in tutti i vecchi libri di devozione.

Žalostna je mati stala
in pod križan je jokala
Nje Snu jubeznivega

Sveta Mati jest te prosim
Rane Kristusa naj nosim
U muojin sarcu utisnjene

Sarce je u martri utopieno
In glaboko prebodeno
Z nožami te žalosti

O kulku je sveta mati
Morla žalosti prestati
za nje Snu Edinega

O kuo joče in žaluje
kadar mati ogleduje
Te martre nazgruntane

Kater človek bi se najoku
videt u žalosti hlaboku
Marija zapuščeno

Da bi mogu veseu stati
in Marijo premišlati
žalostno z gne Jezusan

(mancano alcune strofe)

Kadar smart me bo zadela
daj de tekrat bo pariela
Moja duša sveti raj.



I successori di don Luigi Clignon

Don Luigi viene ben presto rimpiazzato da un prete sloveno, don Egidio Slobbe che per essere tranquillo con la propria coscienza sulla lingua da usare, fece un’indagine famiglia per famiglia.
Sono informazioni che ci pervengono dal bollettino parrocchiale di Mereto di Tomba, dell’ aprile 1982, redatto dal locale parroco don Pietro del Medico di Micottis che dal 1938 al 1942, svolse la sua prima esperienza pastorale proprio ad Erbezzo, in sostituzione di don Egidio trasferito altrove.

Scrive don Pietro sul semestrale Il feral/Il lampione:

“Fui destinato ad Erbezzo perché di trenta sacerdoti novelli di quell ‘anno, ero l’unico diplomato maestro e sapevo parlare un dialetto sloveno.
Mi bastarono pochi mesi per capire la situazione linguistica del luogo.
Venni a questa conclusione dopo aver visitato tutte le 96 famiglie, casa per casa, allo scopo di completare l’anagrafe della curazia iniziata dal mio predecessore don Slobbe.
Io parlavo con tutti soltanto in italiano ma alcuni anziani, uomini e donne parlavano ostinatamente nel loro dialetto dicendo: Saj zastopi slovensko- Comprende ben lo sloveno. Fui obbligato ad accelerare l ‘apprendimento del dialetto di Erbezzo.
Lo sloveno mi è caro come la foto di mia madre.
Impiegavo oltre sette ore di montagna per raggiungere il mio paese natio perciò chiesi ed ottenni il trasferimento prima a Villanova di Lusevera e quindi ad Ara di Tricesimo, da dove mi spostai in paesi tutti di lingua friulana”.

Don Pietro narratore

“A guerra terminata, fui invitato da don Cuffolo a scrivere qualche componimento in dialetto sloveno della Val Torre.
Interessai dell ‘iniziativa anche Negro Pietro (Daziar) noto per le sue belle poesie dialettali.
Egli preparò subito una gustosa poesia riguardante le nozze (zenitke) secondo il costume locale.
Io in vece descrissi il Koledo (mancia di capodanno) ed il pust (carnevale), in prosa.
Dopo alcuni mesi ci arrivò da Lubiana la rivista slovena contenente i nostri contributi ma trascritta in modo letterario, era per noi illeggibile ed incomprensibile, come alla gente del paese da dove era partito.
Invitati a scrivere ancora, né io né Negro aderimmo alla richiesta.

Tutti i dialetti locali, preziosi sotto l’aspetto affettivo, fuori zona non hanno valore pratico,” conclude sentenziosamente don Pietro del Medico”.

Abbiamo voluto trascrivere l’opinione e l’esperienza del curato di Erbezzo perché ci sembra rappresentativa e può aiutarci a capire alcuni atteggiamenti incomprensibili verso la propria lingua materna da parte di preti e buoni cattolici.

Rispettate le tradizioni

Con don Egidio e don Pietro ad Erbezzo sono mantenuti tutti i canti tradizionali in uso nelle altre cappellanie, i salmi del vespero in gregoriano ed il “Buog bodi hvalien/ Dio sia benedetto” al termine della benedizione.
Il canto del vespero si protrasse fino agli anni 60 quando gli uomini preferirono dedicare la domenica pomeriggio alla partita di tresette e le donne dovevano occuparsi da sole del governo del bestiame.

Don Pietro ha lasciato ad Erbezzo un buon ricordo come pure a lui è rimasto nel cuore questo paese dove iniziò il servizio sacerdotale. Me lo disse poco tempo prima della morte nella basilica delle Grazie a Udine dove aveva celebrato il voto annuale dei suoi ultimi parrocchiani di Mereto di Tomba, “dove solco si dice jeha (lieha) di certa derivazione slava” concluse sorridendo.

Don Valter Zaban - Un canto a Maria

Le cose cambiarono completamente con l’arrivo, lungo i sentieri dal natio paese Canal di Grivò, del sacerdote novello don Valter Zaban che nonostante i pericoli di ogni sorta provenienti da partigiani italiani rossi e verdi, jugoslavi, tedeschi e repubblicani, innalzò e tenne alta la bandiera di italianità, trasferendola dal civile al religioso con il completo abbandono di ogni forma di devozione slovena.
L’unico canto “tollerato” da don Valter ad Erbezzo e successivamente ad Antro era il popolarissimo “Liepa si liepa” che sgorgava incontenibile da una radicata devozione a Maria.

A questo proposito inserisco qui una recentissima testimonianza da me vissuta il giorno dell’Assunta di quest’anno, il 15 agosto, proprio nella chiesa di Erbezzo.
Ero stato informato che per la grande solennità la messa sarebbe stata celebrata nella chiesa di San Andrea anziché nella cappella di Goregnavas situata entro il paese.
Per questa solennità ho potuto assistere anche alla tradizionale benedizione del mazzetto di fiori di campo tra cui prevale l’assenzio/ pelen, che poi viene appeso ai poggioli/ linde, come segno propiziatorio contro il maltempo.

Ad un certo punto, dopo aver udito il “Liepa si liepa ‘ al termine del rito si è levato un canto a Maria da me mai udito, armonioso, bellissimo e commovente che sgorgava dal nutrito gruppo di belle voci femminili, direttamente dal cuore.
In seguito ho saputo che quel canto mariano si è conservato e tramandato da tempo immemorabile fino ad oggi grazie ad alcune ragazze di Calla e Goregnavas che lo intonavano noncuranti dei consigli di alcuni a “lasciar perdere”.
Fra queste benemerite del canto tradizionale vanno ricordate Ernesta e Maria Battistig/ Vančurja, Angela e Maria Sakičove, Iva Kajancova ed altre.
Trascriviamo qui il testo del canto mentre per la musica si rimanda alla seconda parte del libro. Tebi Marija, blaiena mati,
sviet prebivati Sarčno želin.

Tvojga imena/ kar počastiti
tebe ljubiti vas hrepenin.

Manja devica nie lieuše stvari,
Marija devica, Marija ste vi.

Marija, Marija, Marija
pridi nan pomoč.

Svetiš ku zarija, ti o Devica,
muoia krajica tuoje ime.

Milosti polno, zlato in sveto
Bogu je uneto tuoje ime.

Marija, Marija, Marija,
pridi nan pomoc.

Il canto riscoperto è già entrato nel repertorio del coro Pod Lipo di Vernasso.

Arriva don Zupancic

Riprendendo la narrazione di fatti che influirono sull’uso del canto tradizionale nella parrocchia di Erbezzo, va detto che don Valter dimostrò parzialità e forme persecutorie verso alcune persone per il solo fatto di non voler sottostare a certe imposizioni non dettate da esigenze religiose.
Una famiglia di gente colta, minacciata dal parroco di essere mandata al confino, dovette abbandonare il paese.
Un componente della famiglia, diplomatosi maestro presso le scuole slovene di Trieste aveva fatto una interessantissima ricerca sul “Pane dei morti/hliebčiči” , che fu pubblicata dalla rivista della Società Filologica Friulana “Ce fastu?” nel 1959. v
Uno dei canti riportati nella rivista viene ancora oggi cantato a Rodda ”Nobedan na vierje” . Trascorsi cinque anni, avviene l’ avvicendamento fra don Valter, che da Erbezzo si trasferisce ad Antro e don Janez Zupancic, profugo dalla Slovenia, da tre mesi economo spirituale ad Antro, in sostituzione di don Cramaro trasferitosi a Premariacco.
Don Janez, nel suo breve periodo di permanenza a san Silvestro, mantenne strettamente vivo il lascito del predecessore, ampliando l’uso dello sloveno e concedendo addirittura ospitalità per la celebrazione, il 16/11/1947, della Prima messa ad Antro, da parte del sacerdote novello don Antonio Zrnec dei padri Lazaristi, anch’egli profugo dalla Slovenia.
Per la grande occasione fu eseguita dalle cantorie riunite di Vernasso e di Lasiz, la messa del Tavoni accompagnata all’organo da don Alojiz Lečen, parroco di Logje, nei pressi di Bergogna. Viene da supporre che tanta “slovenjarja” in una parrocchia importante ed in vista come Antro, abbia messo sul “chi va là” sia i servizi segreti sia la curia che agiva ancora su vecchi schemi, tanto da disporre l’ avvicendamento di cui sopra.

I dattiloscritti di don Zupancic

Don Zupancic rimase ad Erbezzo parecchi anni, adattandosi alle circostanze se non altro per dovere di ospitalità finchè fu relegato a Oblizza.
Fra le carte da lui lasciate ad Erbezzo c’è un foglietto dattiloscritto in lingua italiana e slovena letteraria in cui sono compresi i seguenti canti:

Alla regina della pace”,
il noto “Glasno zapojmo/Cantiamo a voce spiegata” ,
“Globoko usi se priklonimo/ Profondamente tutti ci inchiniamo’;
“Questo terror divino’;
“Castimo te kruh živi/ Ti veneriamo pane vivo’;
“Blagoslovi Jezus pričujoče/ Benedici Gesù i presenti”; ed infine l’altrettanto noto
“Ponižno tukaj pokleknimo/ Umilmente qui inginocchiamoci”.


Don Alberto Cimbaro

Nel 1955 giunse dall’Argentina don Alberto Cimbaro di Ciseriis che aveva già una esperienza maturata quale cappellano nelle Valli prima della sua temporanea emigrazione.

A qualche rara persona che, dati i tempi, si azzardava a chiedere il mantenimento dei canti in dialetto, don Alberto, mite e paziente sacerdote, dava una strana interpretazione della sua poca disponibilità a tali richieste.
“Vedi - diceva - per noi sacerdoti la lingua è indifferente, essa è solo un mezzo per diffondere la fede. Noi disponiamo su un paniere le lingue possibili: sta ai fedeli scegliere quella che più gradiscono.
Sta di fatto che l’umile don Alberto, nella sua lunga permanenza nel comune di Pulfero, si dimostrò saldissimo nel non prendere mai alcuna iniziativa a favore del dialetto, nonostante le indicazioni del Vaticano e le raccomandazioni della diocesi.

Don Elio Ordiner

Trasferito don Alberto Cimbaro ad Antro, il parroco di Montefosca don Elio Ordiner assunse anche la responsabilità di Erbezzo e con grande volontà, finche la salute glielo permise, riuscì ad assolvere dignitosamente i suoi obblighi.
Nativo di Majaso in Carnia, don Elio fu uomo tra uomini, condividendone passioni e passatempi, lasciando sviluppare qualsiasi iniziativa provenisse dai suoi parrocchiani, in particolare accompagnandoli all’armonium che ancora funzionante si trova oggi nella cappella di Goregnavas, compresi gli spartiti di tanti canti religiosi in lingua friulana ereditati da un suo zio prete.

I funerali di don Elio si svolsero a Udine il 20 settembre 1993 nella chiesa dei Cappuccini con grande partecipazione dei suoi ultimi parrocchiani che come estremo saluto gli cantarono “Liepa sì Liepa” che egli tanto apprezzava.

Dalla partenza di don Elio nel 1990, ad Erbezzo si avvicendarono temporaneamente vari sacerdoti non residenti. Fra questi ricorderemo don Lavia che quando è presente in Italia (è missionario in Brasile) viene a celebrare la messa domenicale.
(A libro impaginato veniamo a sapere che don Lavia è deceduto in un incidente stradale).

I componenti della cantoria

Come per le altre parrocchie aggiungiamo qualche altro nome di cantori a quelli femminili già citati. Essi sono:
Livio Battistig,
Luigi Gorenszach,
Luigi Specogna,
la onnipresente corista interparrocchiale Teresa Battistig, poi
Angela Paludgnac, Irene, Luciana...

Per terminare, siamo in grado di trascrivere i nomi di tutta la cantoria di Erbezzo attiva negli anni ‘50 grazie ad una bella fotografia, fornitaci dalla giovane corista Teresa.
Accosciati da sinistra a destra: Angelo Battistig Vančurju, Luigi Gujon Jakopiču, Emilio Gujon Tonu, Emilio, Luciano e Maria Cedarmas Paulonovi, Ines Medves Keracova.
In piedi da dx a sin.:
Cesira e Gelsomina Medves Keracove,
Rina Gujon Patokinova,
Vilma Cedarmas Saldadinova,
Luciana ed Irene Specogna Bedenetove,
Pia e Graziella Comugnero Ujnčičove,
Jolanda Cedarmas Paulonova,
Ernesta Battistig Uančurjova.

La foto è stata scattata sul prato retrostante il campanile di Erbezzo.

LASIZ

Se è vero che Brischis era l’avamposto, il punto di penetrazione nel territorio volto ad uniformare alla lingua italiana anche il campo religioso e quindi con il graduale abbandono del canto di matrice slovena, è vero altrettanto che il caposaldo di resistenza a questo disegno è stata la comunità di Lasiz.

Va subito detto che del gravoso e mal compreso compito, se ne fece carico don Antonio Cuffolo che nel periodo di maggiori ostilità iniziatesi con il periodo fascista ed ancora oggi presenti, per ben quarant’anni, dal 1920 al 1959, anno della sua morte, non spostò di una virgola quanto aveva trovato al suo arrivo; seppe bensì incrementare il repertorio canoro e rinverdire, previe informazioni presso gli anziani, gli usi atavici che si tramandavano da secoli e che durante il periodo bellico 1915/1918, in mancanza di un prete stabile che ne curasse la continuità, erano stati in parte abbandonati.

Una piccola cappellania

I due soli paesi di cui la piccola comunità era allora composta, Lasiz e Cicigolis sono stati sempre strettamente legati fra di loro da radici profonde sia nelle usanze come la koleda, la benedizione dei cibi, la raccolta del pane dei morti hliebčiči, le rogazioni, la benedizione individuale dei campi, le sagre parrocchiali oltre a quelle che si celebravano tre volte all’anno nella primitiva chiesetta di San Donato in monte.
Ciò che manteneva sempre vincolati i due paesi era il canto, profano o sacro, che possedeva medesime caratteristiche.
In monte, durante la varie operazioni agricole, ad ogni crocicchio in cui si incontravano due o più persone, risuonava immancabilmente un canto a cui si aggregavano voci provenienti dagli appezzamenti vicini.
In chiesa invece, il canto sacro assumeva toni ed espressività difficilmente descrivibili.


L’antico modo di cantare poi aveva delle caratteristiche del tutto particolari che nel linguaggio locale si indica ancora oggi con il termine gelit .
Un frammento di tale modo di cantare è giunto fino a noi ed è incluso nella cassetta registrata come termine esemplificativo (8 B).

Sequenza dei preti

Nel periodo anteriore all’arrivo di don Cuffolo, già cappellano militare, invitato dal vescovo Anastasio Rossi a reggere la cappellania in attesa della nomina di un titolare, ma soprattutto per “un periodo di riposo e con valescenza “ , avevano prestato servizio a Lasiz tutti sacerdoti locali,
da Don Antonio Dorbolò di Pegliano a don Giovanni Clignon di Cicigolis,
da don Giobatta Domenis di Rodda a don Antonio Podrecca di San Pietro
fino a don Vittorio Squarzolini di Sanguarzo che per ragioni di salute non fu quasi mai presente.

La successione di preti locali consentì perciò una continuità nell’ uso del canto religioso che d’altra parte, almeno per quanto riguarda il latino, si uniformava alle grandi cerimonie delle feste pasquali, della Pentecoste, di Cristo Re che costituivano la prerogativa della parrocchia di San Pietro, subordinata a sua volta al Capitolo di Cividale.

I custodi del canto antico

In queste grandi manifestazioni religiose, la lettura del Vangelo, le litanie dei santi, le implorazioni e la predica stessa del celebrante o predicatore, erano espresse in una lingua comprensibile a tutti gli abitanti della valle del Natisone, cioè il dialetto sloveno.

Ma chi veramente tramandava il canto religioso in chiesa, erano alcuni anziani, normalmente dodici, forse a simbolizzare gli apostoli, che avevano assegnato in coro il proprio posto ai lati dell’altare.

Uno di questi di cui ancora è rimasto il ricordo, fu Giovanni Medves, Uanz, di Cicigolis, sempre piazzato bene in vista nel primo scranno “Cornu evangeli”, con il suo bell’orecchino d’oro appeso al lobo, simbolo riservato al primogenito maschio della famiglia.
Alla sua scomparsa, avvenuta il 5 dicembre 1942, all’età di 91 anni, don Cuffolo senti il dovere di dedicare due righe del suo diario tali da consentirci di inquadrare un cantore singolare.
Ecco il suo profilo:
“Caratteristica figura di vecchio stampo, popolarissimo in tutta la valle perché non mancava mai a cantare la messa “po starin” (all’antica) in nessuna festa, nessuna sagra, nessun pellegrinaggio, mentre a Lasiz fin dalla gioventù dal suo posto fisso in coro intonava i canti popolari”.

Le figlie di Maria

Accanto a questi personaggi che godevano di grande stima e considerazione, apprezzati per il loro contributo canoro in modo particolare in occasione dei funerali, l’altra colonna portante nella esecuzione, conservazione e diffusione del canto religioso era il gruppo femminile delle Figlie di Maria.
Esse accompagnavano con il canto tutte le funzioni ma erano specialmente con i canti alla Madonna che sapevano esprimere tutta la dolcezza, la melodiosità, il sentimento di cui sono capaci le donne quando usano la propria lingua materna.

I brani eseguiti provenivano dalle “pesmarice” libretti di canti assai diffusi come pure i libri di preghiere in cui erano inseriti i testi dei canti più noti, ancora oggi in auge.
La distribuzione di questi libretti, stampati a Gorizia, Lubiana, in Cecoslovacchia, avveniva tramite i sacerdoti locali che li ricevevano lungo canali di cui essi conoscevano il percorso.
Per quanto riguarda Lasiz, uno di questi solerti distributori di preghiere ed altri oggetti devozionali (Statuine, sacre immagini, santini, corone di rosario), fu don Natale Moncaro, pre Nadalio, di Lasiz che ebbe un rapporto tormentato con il vescovo di Udine a causa soprattutto di essere stato esautorato come rettore di Castelmonte dopo esserne stato il ricostruttore.
Dalla diocesi di Gorizia dove si trasferì, pre Nadalio inviava o portava direttamente il sacro materiale curando in particolare che portasse i connotati della lingua slovena.
La sua compaesana Raffaella Pierigh, mamma di chi scrive, ricevette nel 1913, all’età di sedici anni, il libro di preghiere “Večno živlenje/La vita eterna” donatole proprio da pre Nadalio.

Le ragazze impararono ben presto i canti delle pesmarice che di generazione in generazione, sono giunte ai nostri giorni.
I nomi che ancora si ricordano sono quelli delle nostre nonne e mamme, le coetanee di Raffaella come Rosaria Dorbolò, Maria Gubana, Toninza Varhoukna, Elvira Lukzova, e poi giù giù le sorelle Olga e Vittoria Deganutti, Marcella e Maria Sturam, Ilde Chiabudini, Marta Taljanova, Mariza Cuffolo ed altre.
Accanto ad esse si distingue oggi, per passione ed impegno veramente encomiabili, Anna Gubana, animatrice del coro interparrocchiale che grazie al suo impegno ha ripreso il vecchio repertorio già sull’orlo dell’estinzione.

Il gruppo maschile

L’ archivio parrocchiale di Lasiz, uno dei pochi relativamente ben conservati, se non l’unico con Antro, ci fornisce altre indicazioni in materia di canto religioso.
I numerosi frammenti di partiture per le messe cantate, recano in testa il nome del cantore consentendoci in tal modo di datare approssimativamente l’epoca delle esecuzioni e l’autore della musica.

Troviamo così i nomi Carlin Gusola e dei suoi figli Zaccaria e Bruno, della macchietta Giovanni Manzini Uagrinkni, Rodolfo Vanu di Podvarschis, di Giorgio Manzini (Lesiak), di Livo Plata, dei fratelli Balus, Pierigh e Dorbolò oltre ai Gubana, Raccaro ed altri.
Il vero maestro però della diffusione del canto religioso, il giovane che in perfetta sintonia con don Cuffolo sceglieva i brani, le messe, i canti nuovi da imparare, fu il compianto organista Zaccaria Gubana di Cicigolis. Egli fu non solo diffusore e maestro del canto ma animatore di tutto ciò che poteva essere utile a mantenere la gioventù legata alle proprie radici e tradizioni.

L’organista Zaccaria Gubana

Zaccaria studiò musica a Cividale con il prof. Cozzarolo ed essendo a quel tempo (1920, ‘30, ‘40), l’unico organista della zona, veniva conteso dalle parrocchie vicine come insegnante del coro e come organista in occasione delle sagre.
Chiamato alle armi nel 1943 ed inviato in Sicilia, scomparve nel marasma conseguente allo sbarco degli Alleati sull’isola.

Gli anziani ricordano con grande rimpianto questo loro coetaneo che sapeva mantenerli uniti e motivati in attività che ne elevassero il tono culturale e spirituale.
Zaccaria fu una bella figura di persona colta, sensibile e da tutti amata ed apprezzata, un giovane che le parrocchie del circondano invidiavano per le qualità di cui era dotato.
Sua sposa divenne la paesana Olga Deganutti che rimase la memoria storica dei canti imparati da Zaccaria in gioventù, trasmessi ai suoi tre figli Anna, Beppino e Giovanni.

---+++La perpetua Irma Scubin Il vuoto lasciato dall’organista ed animatore Zaccaria Gubana, fu incolmabile e solamente grazie alla volontà ed intelligenza della perpetua Irma Scubin nativa di Mernicco, fu posto rimedio in qualche modo alla mancanza di un organista.

Il cappellano don Cuffolo, avvalendosi dell’amicizia di sacerdoti musicisti, anche di fama internazionale quali Richard Orel e Rado Lenček, che soggiornarono per brevi periodi a Lasiz, diede ad Irma la possibilità di apprendere i rudimenti musicali indispensabili per la esecuzione dei canti tradizionali. Anche a lei va dato merito se a Lasiz si cantano ancora non solo i canti già in repertorio bensì numerosi altri che si sono aggiunti tramite Irma, provenienti dai suoi luoghi di nascita ed infanzia.
Sia Lenček sia R. Orel, hanno lasciato a Lasiz alcuni preziosi manoscritti contenenti trascrizioni musicali direttamente sul luogo (vedi parte II).

Richard Orel

Nato a Prevacina nel 1881 si diplomò maestro elementare a Capodistria.
La passione per la musica lo condusse a Vienna a studiare teoria musicale.
Fu da noi una prima volta nel primo dopoguerra e particolarmente nel comune di Pulfero raccolse, trascrisse e diede alle stampe una raccolta di canti popolari comprendente 64 brani, dal titolo Narodne pesmi iz Benečije/Canti popolari della Benečija.
Dopo la prima guerra mondiale, gli insegnanti delle cosiddette “Terre redente” furono trasferiti in diverse parti d’Italia. Orel fu inviato in Molise dove raccolse molto materiale della tradizione slava, lascito degli antichi insediamenti esistenti in quella regione.

Durante una breve permanenza a Lasiz nel novembre 1947, il musicista trascrisse di suo pugno alcuni brani indicativi come sono eseguiti in loco. Fra questi c’è il noto canto natalizio conosciuto in tutte le nostre valli e di cui, assieme ad altri due, si sono occupati nel tempo vari studiosi.
Prenderemo ad esemplificazione quanto scritto da un nostro conterraneo, poeta, filosofo, musicista, scrittore e traduttore mons. Ivan Trinko di Tercimonte.

Dove romba il cannone

La rivista “Ars cristiana” ospitò nel 1916 uno scritto del Trinko dal titolo. “Saggio di antiche melodie liturgiche dei paesi ove oggi romba il cannone” . In esso sono descritti tre brani corredati della relativa partitura musicale in uso a San Leonardo e specificatamente il Te dan già citato, il canto pasquale Jezus je od smarti ustal/Gesù è risorto da morte ed il canto per la benedizione del SS.mo Na kolena dol padimo/Cadiamo in ginocchio .

Non cade nella retorica mons. Trinko quando introducendo il saggio scnve:
“Migliaia e migliaia di valorosi figli d’Italia che in quella ospitale regione attendevano ansiosi di slanciarsi alla conquista delle finitime terre, entrando alla festa nelle umili chiesuole di quella popolazione Slava, avranno udito qualcuna di quelle melodie cantate a pieno popolo e ne avranno subito tutto il misterioso fascino”.
Ed ancora:
“L' esecuzione del canto da parte del popoio è meravigliosa, specialmente nei paesi dove c’è migliore disposizione musicale. Chi assiste ad essa la prima volta, riporta una impressione profonda. Il popolo canta un po’ all ‘unisono, un po’ armonizzando a modo suo, lentamente, con gravità e devozione e quasi a mezza voce.
Quando viene il momento di cantare, ognuno depone il libro di devozione, o la corona od interrompe la preghiera e tutti prendono parte al canto:
uomini, donne, vecchi, giovani, fanciulli, con tutte le varietà e gradazioni di voci, con tutte le sfumature, con un affiatamento e fusione perfetta.
Tutti apprendono il canto come un atto doveroso, da compiersi colla massima divozione e quindi l’esecuzione non manca mai di efficacia.
L’immortale Jacopo Tomadini, che ebbe l’occasione di assistere qualche volta a questi canti, non poteva trattenere le lacrime ascoltando.

L’impressione descritta da Trinko è non solo veritiera ma si ripete ancora oggi quando il popolo si esprime liberamente in un canto tradizionale, come è capitato a chi scrive ad Erbezzo il 15 agosto di quest’anno, nell’ ascoltare il canto “Tebi Marija” eseguito da tutti i fedeli presenti.

I tre canti trascritti da Ivan Trinko e da Orel

Scrive Ivan Trinko:
“Gli Sloveni d’Italia, oltre che essere fedeli ed affezionati sudditi, sono anche assai religiosi e ligi alle loro tradizioni ed usanze.
Hanno un grande trasporto pel canto sacro e profano.
Del primo conservano ancora melodie, che erano diffuse nel mondo cristiano nel secolo XV ed anche prima, così p.e. si canta ancora oggi una, che in una raccolta di canti del 1584 chiama “stara velikanočna pesen (antico canto pasquale)”.
La raccolta proviene dal Trubar, sacerdote protestante sloveno (15081586).
Il testo preriformistico si trova stampato anche nel Vocabolario Italiano e Schiavo a cura del p. Gregorio Alasia da Sommaripa.
Ora il testo e la melodia vivono soltanto fra gli sloveni d’Italia”.


Come accennato, fra i manoscritti di Lasiz si trova anche la trascrizione della variante che il musicista Richard Orel ha udito in loco.

Riprendiamo quanto scrive Trinko:
Per le feste natalizie s’è conservata e si canta un ‘altra melodia di cui il Trubar sopracitato dice ―Solemnis ille cantus dies est letitiae, a quodam ante haec tempora bene translatus ― Sembra di origine germanica, perché l ‘esemplare più antico si trova in un manoscritto tedesco del sec. V.
Fra gli Sloveni Austriaci fu esumata ed armonizzata a quattro voci da A. Forster nella sua eccellente raccolta di canti sacri “Cecilja” del 1883.
La melodia come si è conservata da noi ha qualche variante”.


Del “Te dan” e del successivo “Na kolena dol padimo” parliamo nella II Parte.
Quest’ultimo canto, Na kolena , che era eseguito “ab immemorabili” e che ormai era caduto in disuso, sulla base del manoscritto di Orel è stato riesumato quest’anno 1998 ed eseguito con maestosità da ben cinque cori riuniti nella chiesa di san Pietro al Natisone in occasione della rievocazione storica dell’Arengo che si svolge il giorno della sagra di san Pietro (29 giugno).

Il coro interparrocchiale

Le modificazioni avvenute nella organizzazione del servizio religioso, hanno portato un gruppo di belle voci a riproporre i canti del passato mediati dalle attuali consuetudini.
Va dato merito al medico condotto dott. Cavallaro, animatore musicale all’occorrenza, di avere compreso la validità dei canti dal punto di vista melodico tanto da inserirsi nel gruppo canoro con l’intento di recuperare il possibile.

Una validissima iniziativa si è svolta recentemente a Lasiz il 15 giugno di quest’anno dal titolo Muzika pod turman/Musica sotto il campanile con l’esecuzione di quindici brani presentati in un libretto con relativa traduzione dei testi in lingua Italiana.

Il nome “Nove stazicelNuovi sentieri” che il gruppo si è dato, sia di buon auspicio per una continuità di intenti ed opere.

Hagada

Come accennato in premessa, vi sono espressioni di carattere religioso che pur non rientrando nel canto propriamente inteso, hanno un ritmo cadenzato tale da essere paragonabili ad esso.
Il nome Hagada, parola ebraica che significa racconto biblico, è dato a tutte le forme ritmate e ripetitive di avvenimenti biblici od evangelici.
Una di queste hagade Dvanaist resnic Jeguga Krigtuga/Le dodici verità di Gesù Cristo viene ancora oggi eseguita nella famiglia ex Medves, Uancovi di Cicigolis, na svete tri noči/ nelle tre sante notti che sono la vigilia di Natale, di Capodanno e dell’Epifania.
Il testo, riportato al n. 8 della II parte (Hagada), presenta parecchi lati oscuri dal punto di vista dottrinale e tradizionale, specialmente se paragonato agli almeno venti altri simili raccolti all’inizio del secolo in Slovenia da Karel Strekel. (Pesmi pobožne/canti sacri - note pagina 772).

Nella hagada di Cicigolis, infatti, si parla di due Mosè, anziché di due tavole di Mosè come nelle altre trascrizioni.
Alle nozze di Cana si parla di “Vietru” anziché “vrčov/brocche” d’acqua.
Inspiegabili sono gli otto doni dello Spirito Santo (dovrebbero essere 7) e per quanto riguarda l’undici, si riferisce alle migliaia di vergini, compagne di sant’Orsola che in realtà furono solo undici ma che per errore di lettura di una lapide divennero undicimila. C’è qualcuno che si sta interessando a decifrare questi rebus.
A noi basta segnalare la singolarità della hagada pervenuta nel nostro territorio di cui non vi è notizia in altri comuni limitrofi.

Diremo solo, per concludere l’argomento, che delle hagade esiste una vastissima letteratura.
Stanislavo Prato ne ha scritto un libro intero:
Le dodici parole della verità - Novellina cantilena popolare considerata nelle varie relazioni italiane e straniere - Palermo, 1892 pag. 159.
Della hagada hanno scritto lo sloveno Iležič, A.N. Veselovski, il rumeno PetriceicuHasdeu, il russo Sumcov, il polacco Sew-Udziela, il Ceko Zibrt, lo stiriano tedesco Rossegeriev ed altri.
Questi dati ci danno la vastità del territorio in cui è praticata l’hagada e di cui una unica variante è giunta chissà come fino dalle nostre parti.

Altri canti diffusi

Tanti altri canti di carattere religioso non hanno mai cessato di essere eseguiti.
Di tutti questi è riportata la partitura ed il testo con relativa traduzione, nella variante più omogenea fra le varie parrocchie.
Trascuriamo l’elenco di tutti questi canti per mettere in risalto quelli particolari di Lasiz che sono:
Vi oblaki ga rosite/ Voi cieli cospargeteli di rugiada , canto per la novena dell’Immacolata,
Ave Maria in latino, molto armoniosa,
Častito/Sia lodato , eseguito alla chiusura della recita del rosario serale
Krištuš je ustu/ Cristo è risorto , tratto dal manoscritto di Orel e descritto con competenza nella prefazione della II parte
Lahko noč/ Lieve notte
Nad zviezdami/ Sopra le stelle ricco di espressioni poetiche che lo stesso don Cuffolo chiese gli fosse cantata ai funerali.
Gli anziani ricordano la commozione destata dal brano eseguito dalla cantoria alla quale egli dedicò tanta parte di se stesso.

----- San Giovanni d'Antro Siamo giunti all’ultima località della nostra ricerca, secondo un ordine che ci siamo dati.
Essa però è la prima per ordine alfabetico, per storia, per vastità, per numero di edifici di culto, per indipendenza dalla Matrice di San Pietro al Natisone.

Il nome che le deriva, San Giovanni d’Antro, è strettamente legato alla grotta adiacente al paese, monumento della storia religiosa, fisica, geologica, politica ed ambientale che non ha uguali nel circondano.

La chiesa di San Giovanni Battista, ricavata in un anfratto roccioso all’ingresso della grotta, rappresenta la maestria del suo ideatore e costruttore, Andrej von Lach di Skofja Loka che nel 1477 pose mano alla ristrutturazione di un precedente edificio di culto.
Ogni lunedì di Pasqua, tutti gli sloveni della Valle si accalcavano lungo i 144 gradini che portano all’ingresso della chiesafortilizio cui sono legate alcune diffuse leggende.
In occasione di questa sagra di Primavera, che terminava con la merenda sui prati sovrastanti e sottostanti la grotta, la devozione ed i sentimenti di religiosità erano tali da rimanere impressi per tutta la vita nel cuore e nella mente delle giovani generazioni.

Nell’ampia aula della grotta, la gente accalcata all’inverosimile ascoltava il vangelo cantato, la messa ed i canti tradizionali che sono riportati nella II parte del libro.
I robusti giovani di Antro provvedevano fino a pochi anni fa all’oneroso compito di trasportare in grotta l’armonium della parrocchiale di San Silvestro.
Il suono che si propagava nella profondità della grotta, risentendo degli echi prodotti, creava effetti di particolare suggestione.

Non a caso abbiamo scelto tre elementi litici esistenti ad Antro per sintetizzare in copertina il contenuto del libro.
Essi sono:
l'acquasantiera sostenuta da una mano, posta all’ingresso della grotta, simbolo di sacralità;
il suonatore di zampogna posto a sostegno della lesena che simboleggia la musica, infine
il volto di un uomo che canta in modo compreso, ricavato da un portale esistente in paese.
Il materiale con cui sono eseguiti i tre elementi, la pietra, vorrebbe significare ogni cosa duratura che resiste al tempo ed alle intemperie, quale è l’auspicio avvenga per il canto sacro.

Il territorio e le chiese

La parrocchiale che sorge entro il paese ed è dedicata a San Silvestro papa, che ricorre il 31 dicembre, esisteva già verso la fine del 1500.
Nei secoli successivi fu ampliata e dotata di campanile e cimitero.
San Silvestro è chiamato in latino anche Sanctus Passus, il santo del passaggio dall’anno vecchio a quello nuovo, perciò in loco Antro, è detto anche “Gorparšpase” (N. Zuanella Toponomastica in Pulfero pag. 291 Ud. 1994).

Come accennato, il territorio parte dalla sponda destra del Natisone, da fondovalle quindi, per salire fino sulla cresta del Mladesena e della Kraguojnza.
Entro questi confini vi sono le chiese di San Giacomo e Sant’ Anna di Biacis, San Nicolò di Pegliano, e Santo Spirito di Spignon.
In totale ben cinque chiese in cui alternativamente il cappellano, dopo la messa fissa ad Antro, celebrava a turno.

Le strade ed i mezzi per percorrerle sono acquisizioni recenti.
Tutto il servizio religioso, messe, assistenza agli ammalati, unzione ai moribondi, lezioni di dottrina, richiedeva continui spostamenti fatti esclusivamente a piedi.
Se i forti preti del passato, Banchig, Dorbolò, Cosmacini ed altri, ressero alla fatica per molti anni, così non fu per don Giuseppe Cramaro che dopo 14 anni, il 5 ottobre 1947, ottenne per ragioni di salute il trasferimento nella importante parrocchia di Premariacco in Friuli.

San Nicolò di Pegliano

L’antica, primitiva chiesa di Pegliano, costruita lontano dal paese, nella metà del secolo scorso fu abbandonata e sostituita dalla attuale dedicata a San Nicolò.

La messa era celebrata a domeniche alterne dal curato di Antro, in presenza sempre di tutta la popolazione del paese, costituito da numerose borgate.
Gli storici ci informano che Pegliano altro non è che il Pungulinus citato nell’editto di Berengario del 888, millecento anni fa /

Gli abitanti di Pegliano sono sempre stati buoni intenditori di musica, basti pensare ad un certo Miraz, che a Udine fabbricava strumenti a fiato come l’oboe a due chiavi, di cui un esemplare si trova addirittura alla Ueno Gakuen Collection di Tokio in Giappone o il corno di bassetto a 14 chiavi conservato presso la University Collection of Historical Musical Instruments di Edimburgo ed un terzo oboe che si trova nel museo del castello di Udine (L. Nascimbeni Dom n. 15 1997).
La conferma più importante però della passione musicale dei peglianesi, ci viene da una serie di ricevute conservate nell’ archivio di Antro in cui sono elencate le spese da essi sostenute per l’onorario di un organista, lungo un ampio periodo di tempo.

Santo Spirito di Spignon

Costruita in un ameno luogo isolato, quasi a cavallo fra la valle del Natisone ed il comune di Torreano, in occasione della Pentecoste la chiesetta di Spignon è meta di gruppi che provengono dai paesi di entrambi i versanti della cresta del Mladesena.

Durante la funzione il piccolo edificio è stipato di fedeli ma soprattutto di cantori, che rinverdiscono almeno una volta l’anno il secolare repertorio canoro.
Ai canti del passato, caratterizzati dalla lettura cantata del Vangelo,si sono aggiunti molti bei canti sacri pervenuti dall’Italia, quali:
O Signore levate le fronti,
Dal tuo celeste trono,
Mira il tuo popolo,
Inni e canti sciogliamo o fedeli.

Al termine del rito è rimasta l’usanza di sciamare sui prati ricoperti di profumatissimi mughetti e narcisi che in quel periodo ricoprono il monte in tutta la sua estensione.

San Giacomo e Sant’Anna di Biacis

È la chiesa più frequentata, descritta e fotografata del circondario.
Il canonico Missio che la visitò il 9 maggio 1602, (Cracina op. cit.) la descrive decente e ci informa anche che è posta appresso la muraglia dell’antico castello de Landri.

Per la sagra di San Giacomo, ma soprattutto per Sant’Anna (26 luglio) le “Anne “e le mamme della Valle, accorrono a venerare la loro santa protettrice, esprimendo tutta la propria devozione con apposite preghiere e canti dedicati alla santa.
Le mamme portano seco i figlioli, felicissimi perché ricevono gli immancabili kolači /ciambelle.

Canti e cantori

Fino alla permanenza di don Giuseppe Cramaro, sia Antro che Lasiz erano i centri di diffusione del canto sacro in lingua Slovena.
L’intonazione spettava alla Elena Sturam di Tarcetta, seguita da Maria ed Amalia Banchig di Antro.

Il repertorio era ampio e ricco di scelta per ogni circostanza.
Da “Glasno zapuojmo” all’ingresso del sacerdote al ”Ponižno” d’inizio messa al “Buog bodi hvaljen” eseguito al termine della funzione pomeridiana.
Ad Antro era seguita con particolare devozione la pratica del 1° venerdì del mese ed in quella occasione era cantato il “Presveto sarce slavo” .
Altro canto di circostanza, “Sarčno molin Jezusa” sia ad Antro sia a Lasiz era eseguito per la Prima Comunione creando particolare commozione e suggestione, sia fra i comunicandi sia, forse in misura maggiore, fra le mamme.
Come nota, va ricordato che in tale giornata i comunicati erano ospiti del parroco almeno fino all’ora di pranzo (ad Antro anche a pranzo), che le mamme predisponevano a casa.

La colazione invece (allora si faceva la Comunione a digiuno) a base di caffelatte e focaccia, era preparata in canonica dalla perpetua.
In quelle ore, il parroco intratteneva i ragazzi e le ragazze in lieto conversare e mantenendo sempre elevato il tono mistico della circostanza.

Ufar - Offertorio

Anche ad Antro a Natale era cantato il “ Te dan” alla cui intonazione e conduzione provvedeva il vecchio Rakar di Biacis.
Durante il lungo canto, si svolgeva il rito dell’ “Ufar”/Offertorio, che consisteva nel recarsi tutti, dagli anziani ai bambini, attorno all’ altare per deporre su un tovagliolo l’offerta in denaro e ricevere il bacio della pace tramite la patena che il sacerdote porgeva e ripuliva con un lino al seguito di ogni persona.

L’uso del canto “Te dan” a Biacis, nonostante la trascuratezza di alcuni sacerdoti succedutisi a don Cramaro, fu mantenuto fino a pochi anni fa per merito di Giovanni Raccaro, figlio dello Star (vecchio) Rakar.
Da solo, appoggiato allo stipite della porta, all’Offertorio, fino alla fine, Giovanni intonava con intensa commozione il canto che fu la prerogativa dei suoi avi.

Organo ed organisti

Nella parrocchia di Antro, esisteva l’unico organo nel territorio del comune di Pulfero.
Il merito va attribuito ai fratelli Giuseppe e Luigi Succaglia “Kovači” di Cras che, entrambi ciechi, ebbero modo di apprendere la musica in un istituto di Venezia dove furono ricoverati da ragazzi.
La capacità e la bravura dei fratelli, in particolare Giuseppe, stimolarono talmente i parrocchiani da indurli ad acquistare un organo.
Il fatto ebbe un’eco impensabile e la gente di tutta la valle, specialmente in occasione delle sagre, si accalcava nella chiesa di san Silvestro per udire queste meraviglie che uscivano dalle canne metalliche dello strumento.

Giuseppe Succaglia, oltre che organista, divenne maestro di musica anche per le parrocchie vicine tanto che una lapide posta sotto la luppa della chiesa di San Giacomo di Biacis, ci rammenta:
In memoria del suo amato maestro GIUSEPPE SUCCAGLIA, la “Scuola di musica” di Vernasso, in segno di affetto, di stima, di riconoscenza, nel trigesimo di sua morte, chiedendo una prece, pose.
Nato il 27.2.1865 ― morto il 19.2.1928.
Santa Ceciia patrona della musica, prega per lui.


Il promettente coadiutore di Succaglia, Blanchini, divenne maestro del coro ed eseguiva gli assoli di numerosi brani che gli organisti del duomo di Cividale, Jacopo e Raffaello Tomadini, Giobatta Candotti e successori, gli passavano in anteprima.
Fra i brani cividalesi ricordiamo il “Te ergo quesumus” di Jacopo Tomadini, Jesu redemptor omnjum del Candotti ed il pezzo forte “La berichinissima” sempre del Candotti per solo organo, che con il suo ritmo brioso accompagnava i fedeli all’uscita dalla chiesa.

Il fulmine e l’incendio

Il 28 luglio del 1920, un fulmine colpì la chiesa di Antro incendiandone il tetto, le parti legnose e disgraziatamente anche l’organo.
La chiesa fu riparata ma dell’organo non se ne parlò.

Lo strumento era stato inaugurato e collaudato il 23 marzo 1897, ventitré anni prima, da una commissione che ne redasse il verbale di cui è rimasta copia in archivio.
Si trattava di un organo Zordan,
“con i registri di concerto: Viola, Bordone, Flauto, Flautino e Trombe. Il Ripieno è forte e pastoso, sostenuto dai robusti contrabbassi, che danno all’istrumento vera grandiosità”. Maestri collaudatori P. Giuseppe Tessitori Can. organista della collegiata di Cividale, M Tomadini Raffaello, Sac. Giambattista Brisighelli parroco di Percotto.

All’epoca era cappellano curato di Antro don Antonio Cosmacini, nativo di Sorzento.

Non servono parole per immaginare l’orgoglio della parrocchia di Antro nel possedere un vero organo ed un vero organista, Giuseppe Succaglia.

In questo dopoguerra, alcuni giovani furono stimolati ad apprendere la musica.
Fra questi si distinsero Efrem Specogna di Tarcetta e Amedeo Succo di Antro, entrambi ben presto emigrati lasciando allo scoperto il posto di organista.

Varie

Ancora qualcosa sull’ archivio in cui sono giacenti alcuni fogli consumati agli angoli, segno di un certo uso.
Sono canti in lingua latina ed in sloveno il che ci fa supporre che siano lascito di don Zupancic, poiché sappiamo bene che i suoi successori, don Zaban e don Cimbaro, non davano spazio alla lingua dei padri.

In latino troviamo:
Adoro te devote, Ave verum, Adeste fideles, Coelesti discendit, Aeterni parentis, Pro nobis Angelicum, Christus vincit, Sacris solemniis, Lauda Sion Salvatorem, Anima Christi santifica me, O sacrum con vi vi um, O quam suavi est, Concordi laetitia.

In lingua slovena invece troviamo.
O sveta Devica, Naj veselo povzdignimo, Zakliàčen Marijo, Marija skos živlenje, Tebi Marija, Tebe zbrali smo Devica, Je angel Gaspuodu, Hvala venčnemu Bogu (po Michaelu Haydnu).

Anche ad Antro, come in tutti i paesi delle Valli, con qualche variante si recita ancora una implorazione cadenzata, riservata ai bambini: una variante è stata raccolta e trascritta da don Gorenszach (pubbl. citata). Questa che riportiamo la ricorda Maria Clignon di Tarcetta, prossima all’ ottantina. Molitvica:
Pujmo spat
z Buogan brat
s svetin križan prebivat
duor je z Buogan Buog je z njin
Ježuš je Marijin Sin
Svet Petar j tan z Rima
nebeške kjuče ima
Odperja tin dušican
odprite tudi našin
de pridejo gor h vaàšin
Naše za vaše
Vaše za naše
bojo Boga prosile.

Preghierina: Andiamo a dormire - Con Dio al fianco - con la santa croce trattenersi - chi è con Dio, Dio è con lui - Gesù è figlio di Maria - San Pietro è a Roma - del paradiso ha le chiavi - apre alle anime - aprite pure alle nostre - che si uniscano alle vostre - Le nostre per le vostre - le vostre per le nostre - Imploreranno Dio.

Da don Zaban ad oggi

Giunto da Erbezzo nel 1948, don Valter incise profondamente nell’uso delle preghiere e dei canti sloveni per ragioni solo a lui note.
A sostegno della sua avversione viscerale verso la lingua degli avi, riportava quale esempio di barbarie le violenze subite da don Zupancic, giunto qui profugo.
“Sai che lo tennero per giorni immerso in una vasca di acqua ghiacciata per fargli ammettere colpe che non aveva - mi raccontava un giorno.
Alla mia osservazione che quasi tutti i preti sloveni subirono simili torture dettate dal regime e non dalla appartenenza etnica, il mio convinto interlocutore non sentiva ragione, continuando a diffondere dal pulpito le sue prediche antislave con l’accanimento di un profeta.

Per fortuna non sono solo questi i parametri per giudicare una persona e men che meno un sacerdote che sa bene a chi dovrà rispondere.
In compenso don Valter fu attivissimo nel promuovere ed erigere qualcosa di duraturo come la sala parrocchiale ove intrattenere la gioventù con la proiezione di filmine ed esibizioni teatrali.

Erano gli anni dell’ 800 dell’Azione cattolica, quando si cantava:
Balde e salde si allineano le schiere /la gioventù cattolica in cammino / la sua forza lo spirito divino / che innalza in alto i cuori e le bandiere / ed ogni figlio affronta la sua guerra / votato al sacrificio ed al valor / / Bianco Padre che da Roma / ci sei meta, luce e guida / in ciascun di noi confida / su noi tutti puoi contar. / Siamo arditi della fede / siamo araldi della croce / al tuo cenno, alla tua voce / un esercito all ‘altar.

Per rendere maggiormente l’idea che la Gioventù Cattolica con questo frasario altri non era che la continuazione della GIL (Gioventù italiana del Littorio) il fervente cappellano dispose alcuni altoparlanti sul campanile di Antro che amplificavano la diffusione del messaggio ed inacidivano lo stomaco di don Cuffolo a Lasiz.

In questo periodo e fino ad oggi la conduzione del canto in chiesa partiva dalla intonazione di Giuliana Manzini Uarešova ed altre.
Per non dimenticare rammentiamo ancora qualche canto come il gregoriano
Salve Regina, Inni e canti sciogliamo o fedeli / al divino eucaristico re, ecc.

Il presente

Nel 1969 don Zaban assunse il compito di cappellano militare a Cividale, sostituito immediatamente da don Cimbaro proveniente da Erbezzo.
In campo canoro e musicale nessuna novità.
Giunse invece al posto di don Cimbaro un sacerdote attento a tutte le problematiche grazie alla esperienza maturata in Brasile in qualità di missionario.
Purtroppo don Pietro del Fabbro non seppe resistere al richiamo dei derelitti ritornando in breve fra di essi.

In questo periodo di accorpamento delle parrocchie, è sorto un coro interparrocchiale si direbbe spontaneo, che si avvale della preparazione di Teresa Costaperaria di Spignon, animatrice ed organista dell’affiatato gruppo.
Ad essi va dato il merito di avere cancellato ogni preclusione, usando come è corretto sia, l’italiano e lo sloveno senza alcuna differenza.
Non rimane che l’augurio di un recupero ancora più vasto del repertorio che fu da sostegno morale, tramite il canto sacro e la devozione religiosa, alle tante avversità che i nostri avi dovettero subire e seppero superare lungo un arco di quindici secoli di permanenza su questo territorio.

Luciano Chiabudini
(tratto da CANTI SACRI NEL COMUNE DI PULFERO)






IL CANTO RELIGIOSO NELLE VALLI DEL NATISONE

Il canto liturgico, almeno nelle intenzioni del suo gran riformatore, papa Gregorio Magno (590-604), avrebbe dovuto essere per sempre intoccabile sia nel testo sia nella melodia.
Il testo ha resistito fin quasi ai nostri giorni, precisamente fino al 1956 quando è iniziata l'introduzione delle lingue volgari nella liturgia in sostituzione del latino; la melodia, invece, sotto il grande stimolo della creatività insito nell'animo umano, ha trovato appena dopo qualche secolo la strada per evolversi, imboccando la gran via della polifonia.
E con "furbizia"!
Infatti, ciò è potuto accadere in barba a tutte le regole liturgiche in quanto la polifonia manteneva integra la melodia gregoriana (cantus firmus), aggiungendo però ad essa una e, in seguito, diverse altre melodie melodicamente indipendenti. In seguito, nel '4-500, s'iniziò a sostituire al cantus firmus un canto popolare come spunto ed appoggio perfino alle costruzioni polifoniche della messa, ma solo fino al Concilio di Trento (1545), che riformò, fra mille altre cose, il canto liturgico cattolico. Mentre la riforma luterana continuò ad utilizzare largamente le melodie popolari soprattutto nella forma del "Corale".

Sembrerebbe una premessa inutile dovendo parlare delle melodie religiose delle nostre parrocchie, invece è doverosa e indispensabile per fissare alcuni punti che ci aiuteranno a comprendere l'essenza del nostro canto popolare religioso.

Innanzi tutto è utile osservare che il canto dotto e il canto popolare hanno camminato sempre di pari passo anche se su binari diversi: s'influenzarono vicendevolmente.
Procedendo, infatti, nella storia della musica potremmo osservare che il canto popolare nei due secoli seguenti, da Frescobaldi a Haydn, serviva spesso come spunto ed appoggio per le forme strumentali; il Romanticismo, poi, esaltò, anche teoreticamente, il canto del popolo come documento diretto dell'arte e, come conseguenza, sviluppò nei vari paesi l'etnofonia che, indagando il patrimonio etnofonico d'ogni popolo, produsse e favorì l'ordinamento scientifico dei canti popolari in raccolte.

Anche noi, nel nostro piccolo, abbiamo di queste raccolte.
Basta citare la più organica:
"Le tradizioni popolari degli sloveni in Italia" di Pavle Merkù,
che contiene tantissimi canti religiosi. Ma sono interessanti anche altre pur certamente minori, come la pubblicazione
"Slovenske narodne pesmi iz Benečije" di Rihard Orel
con canti solo profani.
Per l'argomento che trattiamo sono ancora più importanti le
"Pesmarice" (raccolta di canti religiosi),
anche se il loro intendimento non fu scientifico ma pastorale.
Di queste parleremo in seguito.

Una seconda osservazione importante: dinanzi al bisogno dell'assoluta libertà dell'espressività umana, soprattutto sul piano emozionale, tutte le regole prima o poi crollano. Il Concilio di Trento riformò il canto liturgico ma non riuscì ad impedire, ad esempio, che la forma del Corale, una forma tipica della liturgia luterana, entrasse a piene mani nel canto religioso là dove lo spirito del popolo era consono a questo genere di canto. Ed è il caso nostro. Infatti, la stragrande maggioranza dei nostri canti religiosi sono in pratica dei Corali in quanto la nostra gente, come tutte le genti nordiche, ama il canto corale isoritmico e attraverso esso si esprime più naturalmente.

Una terza osservazione:
la cultura musicale occidentale, e in particolare il canto gregoriano, in questo contesto non ha potuto non influenzare tutte le culture musicali delle genti d'osservanza cattolica.
Ecco perché nel repertorio dei nostri canti ne troviamo qualcuno di stretta ispirazione gregoriana.
Basti citare:
"Jezus je od smarti ustu",
ma anche
"Te dan je usega veseja".
E se andassimo a spulciare melodia per melodia troveremmo nelle nostre melodie tanti spunti di canto gregoriano anche perché questo canto ha talmente sviluppata la parte melodica (non quella ritmica) che difficilmente si potrebbero creare spunti melodici completamente nuovi, almeno entro il sistema modale.

Nelle celebrazioni liturgiche il canto religioso, pur entrando di prepotenza, aveva un'importanza relativa in quanto ben più importante era il canto strettamente liturgico e che consisteva soprattutto nelle cinque parti invariabile della celebrazione eucaristica (le parti variabili erano cantate nei monasteri e nelle cattedrali):
il Kirje, il Gloria, il Credo, il Sanctus e l'Agnus Dei.
Il testo di queste parti non solo non poteva essere minimamente cambiato ma doveva essere, almeno fino al 1956, in lingua latina.
Queste parti nelle messe "basse" o "lette", come si soleva dire, erano recitate, mentre nelle messe "solenni" o "cantate" erano cantate. Nelle nostre chiese molto spesso queste parti invariabili della messa erano cantate in gregoriano. Nota in tutte le parrocchie era (e gli anziani la ricorderanno ancora) la messa "De Angelis", una delle più melodiose messe gregoriane.

Lo spartito molto logoro della messa "De Angelis" di Lasiz dimostra quanto questa messa è stata usata.

Tuttavia il canto gregoriano vero e proprio abbisogna di una precisa tecnica vocale e di uno stile tutto particolare, di modo che si può benissimo affermare che, in pratica, anche la messa "De Angelis" divenne, almeno nell'esecuzione, una messa popolare.
Anche la "messa da requiem", il "Miserere", il "Libera me, Domine", usati ai funerali o nelle "messe da morto", utilizzavano melodie gregoriane o gregorianeggianti.
E sicuramente diverse messe, purtroppo dimenticate senza esser state mai trascritte come ad esempio la "messa da requiem" che si cantava a Mersino fino a non molti anni fa e che forse qualcuno ricorda ancora, avevano un'origine gregoriana.

Anche il "Pange lingua" o le ultime due strofe di esso, il "Tantum ergo sacramentum", usati nella celebrazione della "Benedizione pomeridiana", il "Žegan", erano cantati in gregoriano, come del resto tutto il "Vespero", il "Veni Creator Spiritus" (cantato all'inizio della messa di Capodanno), il "Te Dem laudamus", che era sempre cantato alla fine della messa di mezzanotte di Natale.
Così, in pratica, anche il canto gregoriano diventava canto liturgico popolare e non poteva non avere la sua parte d'influenza anche nella produzione di melodie religiose popolari.

Lo stesso discorso si può fare per le musiche liturgiche (le famose "Messe") o religiose (i vari canti devozionali) d'autore.
In pratica anche tutte queste melodie, specie i canti devozionali, l'anima del popolo le fece sue.
Per questo potremmo tranquillamente definirle canto religioso popolare, almeno laddove furono assimilate, continuamente usate e cantate in un certo modo.

Un'ultima osservazione, non certo ultima come importanza:
accanto al canto popolare religioso, quello legato alle celebrazioni liturgiche e perciò cantato nelle chiese, v'è pure il canto popolare religioso legato alle tradizioni popolari religiose e perciò indipendente dalle celebrazioni liturgiche delle chiese.
Bisogna operare questa distinzione in quanto le caratteristiche dei due canti sono completamente diverse.
Il canto popolare legato alle tradizioni religiose è assolutamente libero da ogni pastoia ed è quello che più liberamente e meglio esprime l'anima del nostro popolo.
Anche dal punto di vista artistico è il più interessante, in quanto è nato dal popolo, riflette la sua anima e il suo continuo uso lo ha limato fino a portarlo alla perfezione estetica sul piano sia formale sia melodico.

Mi sembra indispensabile portare come esempio le melodie del canto legato alla tradizione della "Devetica".
Nel nostro Comune abbiamo tre melodie, anzi quattro come vedremo, completamente diverse e di tre diversi paesi:
Mersino Basso, Montefosca, Cicigolis.
Sicuramente esistevano canti anche di altri paesi (perché questo canto è legato al paese dove si svolgeva la "Devetica" non alla parrocchia), che però sono andati perduti in quanto la tradizione della "Devetica" in questi paesi è caduta ormai da tanti anni e il canto è stato dimenticato.
A Mersino Basso (Juret) esiste ancora il "quadro" che era portato nella processione da una casa all'altra e c'è ancora a Cicigolis anche se, caduta la tradizione della "Devetica", il "quadro" (la capanna) è utilizzato per una tradizione diversa, cioè per la "Koleda".

Il testo di tutti questi canti è simile, in quanto narra il Natale di Gesù. Mentre le melodie sono molto diverse.
Eccole:

Nelle nostre Valli sono stati raccolti diversi altri canti legati alla "Devetica":
"Na zapuoved je paršla" a S. Leonardo,
"Kaj si praviu, sosed muoj?" a Seuzza,
"Pošlušajta, o judje" a Canebola
(la melodia di Canebola è abbastanza simile a quella di Mersino; da notare che nel canto e nelle tradizioni Canebola è molto legata al Comune di Pulfero),
la bellissima melodia "Marija gresta z Jožefan" di San Volfango, qui di seguito riportata per la sua struggente semplicità e bellezza:

Va aggiunto che a Mersino Basso esiste (ed è ancor oggi cantato) addirittura un secondo canto della "Devetica", uguale, naturalmente, nel testo ma diverso nella melodia.
Eccolo: %[][img_religio4.jpg][center]% Purtroppo quasi tutti i canti legati alle tradizioni popolari sono andati perduti, in quanto le tradizioni popolari sono state le prime ad essere abbandonate e con esse si sono perduti anche i canti.
Quelli della "Devetica" sono sopravvissuti, perché in diversi paesi questa tradizione è ancor oggi praticata.

A questo punto sorge spontanea una domanda:
i canti delle nostre parrocchie sono nati qua?
E se no, da dove provengono?
Chi li ha introdotti nelle nostre chiese?

Naturalmente la risposta non potrà essere univoca.
Bisognerebbe considerare canto per canto anche se le risposte nella maggioranza dei casi sarebbero solo congetturali.
Si possono comunque tranquillamente porre alcuni principi generali.

Abbiamo già visto che alcune melodie provengono dal canto gregoriano; alcune indiscutibilmente, altre forse solo con più o meno forzature.

Altre melodie sono d'autore, quindi non ci sono dubbi riguardo all'origine; ci si può interrogare invece sul come e sul perché sono arrivate qua da noi.
Infine ci sono melodie che sicuramente sono nate qua da noi, proprio nei nostri paesi.
Purtroppo queste melodie, le più interessanti e le più belle, sono in numero molto limitato, perché di troppe non se ne ha più memoria; venivano, infatti, tramandate oralmente e purtroppo non sono state "salvate" in tempo nella trascrizione scritta.
Basti pensare che per la pubblicazione di "Le tradizioni popolari degli sloveni in Italia" (che contiene oltre 500 canti, la maggioranza dei quali rilevati nelle Valli del Natisone) Pavle Merku ha lavorato negli anni 1965-1974.
Ora nel 1965 ormai troppi nostri canti erano già stati dimenticati.

E' vero che nelle chiese delle nostre Valli c'era quasi sempre una cantoria e assieme ad essa "qualcuno" che la guidava in quanto conosceva qualcosa di musica, ma è anche vero che questo "qualcuno" o non era in grado di trascrivere una melodia attraverso l'ascolto (non è cosa facile anche per un musicista) o non si preoccupava di trascriverla in quanto la conosceva benissimo.
Ciò risulta anche dall'esame dei manoscritti di Lasiz, nei quali esistono tentativi di trascrizione molto incerti specie nel ritmo di alcune melodie popolari.

La scrittura ritmica è manchevole e la melodia è in diversi punti errata.
Non ci fosse il titolo, difficilmente si capirebbe di che canto si tratta.

Ci sono, invece, i due canti trascritti alla perfezione da R. Orel:
"Te Dan" e "Jezus je od smrti ustu",
il quale Orel sapeva bene trascrivere i canti ma era a Lasiz solo occasionalmente per l'amicizia con don Antonio Cuffolo.

Ecco una sua trascrizione ben leggibile.

Tra i manoscritti esiste un secondo "Jezus je od smarti ustal". I suoni sono abbastanza simili al precedente. Si capisce che la derivazione è la stessa, quella gregoriana, mentre il ritmo è completamente diverso.
Il trascrittore, don Moncaro, ha tentato di farlo entrare nel tempo 4/4, incontrando notevoli difficoltà; anche la tonalità è errata. Sicuramente non era cantato così com'è scritto.
Ciò a riprova delle difficoltà di trascrizione per un "non addetto ai lavori".
Altri tentativi sono addirittura incomprensibili.

Sarebbe stato facile usare un registratore, ma prima del 1964 era quasi impossibile procurarsene uno, perché costava troppo.
Io stesso, ne avessi avuto uno, avrei potuto registrare un gran numero di canti.
Ricordo tuttora quanti ne ho sentiti dalla voce della signora "Mišoka", allora completamente cieca e costretta al letto, che ogni qual volta la andavo a trovare (e lo facevo spesso, dato che abitava proprio vicino alla canonica) mi cantava tante ninne-nanne, filastrocche e canti religiosi.
Io, con grave negligenza, ho sempre rimandato il lavoro di trascrizione fino a che fu troppo tardi.
Avessi avuto un registratore...!

Dei canti trascritti in questa pubblicazione sicuramente nate sul posto sono le melodie legate alle tradizioni popolari religiose, quelle che si svolgevano al di fuori delle celebrazioni liturgiche e del luogo di culto, come le melodie citate della "Devetica" e il canto "Dobro večer", legato alla tradizione della "Koleda".

Una melodia sicuramente nata a Mersino è "O stua krat srečna duša ti" (n.°30).
La melodia è modale, legata cioè agli antichi modi e perciò molto vecchia.
Anche il testo è originale, almeno rispetto alle edizioni delle diverse Pesmarice (Raccolte di Canti), che, invece, riportano tutte le parole e la melodia del musicista Davorin Budna (n.° 29 del nostro testo).
Accanto al testo solito di "O srečna duša" della Ljudska Pesmarica che apparteneva a Giuseppe Zorza, maestro di Coro di Mersino Basso, è segnato l'inizio di ogni strofa nella versione cantata a Mersino.
La successione delle strofe e tutto il testo sono precisi a quello che ancora oggi si canta a Mersino, come del resto si può verificare dal nastro accluso alla presente pubblicazione.

Altre melodie sicuramente nate nei nostri paesi sono:
i due "Častito",
"Mašnik požegna bieli kruh"
(esistono diverse versioni nelle Valli con varianti anche molto caratteristiche; ce n'è una anche nei manoscritti di Lasiz, scritta da don Moncaro),
"Na kolena dol padimo" (nel libro di preghiere "Naše molitve" di Mons. Ivan Trinco esiste il testo).

Nel manoscritto di Lasiz accanto a "Na kolena" don Moncaro ha scritto "Domača", canto nostrano.
Il che significa che già egli era convinto che si trattava di una melodia nostra.

Ecco il titolo del canto con la sua definizione "domača".

Altri canti ancora:
"Nobedan ne vierje",
"Oj Marija Rožinca",
"Okuole stalce" (probabilmente di S. Leonardo),
"Parva ura bila je", canto di pellegrinaggio. Esistono diversi canti di pellegrinaggio nelle Valli.
Mersino ne ha uno:

"Andiamo, su andiamo dal nostro Gesù, che per noi ha sudato sangue. Non doveva farlo, se non l'avesse voluto: ha fatto bene ed è stato misericordioso. Lungo è il viaggio, buia è la notte, chiamaci, Maria, nella luce celeste".

Era cantato durante la recita dei misteri dolorosi del Rosario.
Si sostituivano le parole: al primo mistero "...karvavi puot potiu", al secondo "... tepen biu", al terzo "... s tarnjen kronan biu", al quarto "... križen biu", al quinto "... gor na križe umru". In vista del Santuario si intonava sempre la strofa: "Duga je rajža...".

Ancora altri canti:
"Sa se sbudi, duša moja",
"Sveta Barbara",
"Sveta Marija, prosi Boga za nas",
"Svet kelih",
"Tam gor je edna gora",
"Taužint krat bodi ceščena". Questi canti non si trovano sulle "Pesmarice", (nemmeno nel testo "Slavimo Gospoda", edito recentemente, nel 1988, a Klagenfurt e che ha recuperato in pratica tutto il repertorio di canti popolari sloveni).
Si nota facilmente che il testo di questi canti è sempre espressione verbale del luogo nel quale il canto è nato.

Non a caso la maggioranza di questi nostri canti è stata raccolta a Montefosca e a Mersino, che più a lungo d'altri paesi hanno conservato le loro specificità culturali.

Tutti questi canti presentano melodie molto sentite pur nella loro semplicità, una stesura limitata (generalmente entro una quarta o una quinta), un testo elementare con espressioni familiari, a volte addirittura infantili ma suggestive e poetiche e, naturalmente, tipiche del nostro dialetto.
Melodia e testo si fondono meravigliosamente per esprimere con la massima spontaneità e semplicità il senso della preghiera.
Sarebbe interessante commentare il testo oltre che la melodia di questi canti.
Ciascuno che conosca bene il nostro dialetto può rileggerli e gustarne la poesia.

Altri canti sono certamente d'autore: tutti quelli che nella presente pubblicazione hanno segnato accanto l'autore.
Precisamente i n.° 19, 22, 29, 36, 39, 51, 52, 54. Otto su cinquantaquattro: chiaramente una minoranza e non certo a caso.

E' anche vero che tutti i restanti canti della presente raccolta, assieme a tanti altri che si cantavano nel recente passato nelle nostre chiese, si trovano sia come testo sia come musica nelle diverse "Pesmarice", che erano presenti in tutte le nostre chiese.
Queste "Pesmarice" sono:

1. la "Cerkvena Pesmarica "Cecilija" - 1883 - riedizione 1902 - stampata a Klagenfurt;

2. la "Cerkvena Pesmarica" di Danilo Fajgelj - 1900 - Gorizia - Ljubljana (poco usata);

3. la "Ljudska Pesmarica za nabožno petje v cerkvi, v šoli in doma" - 1904 - Raccolta di canti popolari per il canto religioso in chiesa, a scuola e a casa. Stampata a Ljubljana, porta l'imprimatur dei vescovi di Klagenfurt, Ljubljana, Maribor, Trst e Koper, Gorica ed è stampata per conto della "Družba sv. Cirila in Metoda" (molto usata).

Questa, tra le Pesmarice, è sicuramente la più diffusa tra la gente delle Valli

4. la "Slovenska Pesmarica" di Jacob Aljaž - seconda edizione 1911 - stampata a Klagenfurt, contiene in maggioranza canti profani, alla fine anche una ventina di canti religiosi;

5. la "Cerkvena Pesmarica za mladino" di Stanko Premrl - 1916 - Raccolta di canti di chiesa per la gioventù - stampata a Ljubljana;

6. soprattutto, infine, le "Svete Pesmice" - Canti sacri - seconda edizione 1940 e riedizione 1955 - stampate a Gorizia.

Queste "Svete Pesmice" erano sempre presenti in tutte le nostre chiese. Da esse, infatti, provengono quasi tutti i canti che erano usati nelle chiese.
D'altra parte questi stessi canti si ritrovano generalmente anche nelle altre "Pesmarice".

I maestri di coro attingevano da questa pubblicazione la stragrande maggioranza dei canti che insegnavano

E' doveroso elencare anche i libri di devozione molto usati dalla nostra gente (almeno prima della Seconda guerra mondiale) e presenti in tutte le famiglie, che erano utilizzati per pregare ma anche per cantare. Hanno solo il testo senza quindi la musica:

1. il "Večno Življenje" e il "Nebeški ključ", tutti e due di Gregorij Pečjak, rispettivamente del 1912 e del 1913, stampati a Ljubljana e che hanno ambedue nella prima parte "Molitve v Videmski nadškofji" - Preghiere nell'arcidiocesi di Udine;

2. il "Naše Molitve" di Mons. Ivan Trinko - 1951 - stampato a Gorizia. Nelle intenzioni di Mons. Trinco, come risulta dalla prefazione, è il testamento spirituale per la "sua gente".

Bisogna sottolineare la grande importanza di tutte queste pubblicazioni, che hanno salvato e diffuso il patrimonio popolare religioso degli sloveni.

In questo modo l'origine della maggioranza dei canti che si cantavano nelle nostre chiese sembrerebbe facilmente spiegata. Così non è: sarebbe troppo semplicistico! Se andiamo, infatti, sulle Pesmarice a controllare i canti che maggiormente erano usati nelle nostre chiese, ci accorgiamo che (come abbiamo notato sopra) la maggioranza di essi non ha segnato l'autore; oppure, su qualche pesmarica, è specificato chiaramente che il canto è popolare o che è addirittura "staroslovensko" - vecchio canto sloveno.
Il che significa che questi canti sono veri canti popolari, condivisi però entro un'area culturale molto vasta, alla quale area culturale chiaramente apparteneva anche la nostra.
Questi canti sono nati in quest'area anche se oggi, almeno per la stragrande maggioranza di essi, è praticamente impossibile sapere dove e quando precisamente.

Tenteremo di spiegare l'ultima domanda: "come" questi canti sono arrivati nelle nostre chiese?

I canti nati nei nostri paesi sono certamente i più vecchi.
Indagare sulla loro precisa origine è molto difficile, anche perché abbiamo in mano pochi reperti e quindi poca possibilità di raffronto e, inoltre, sono testimonianze passate nel tempo chi sa quante volte "di mano in mano".

E' consolante per noi oggi sapere che la nostra gente, forse sotto altri aspetti illetterata e analfabeta, sapeva, invece, risolvere così bene le proprie esigenze spirituali, riuscendo perfino a inventare melodie e canti che oggi ci stupiscono e ci commuovono.

Per quanto riguarda la presenza degli altri canti popolari, quei canti che si trovano sulle "Pesmarice" e che tali e quali venivano (e sono ancora) cantati nelle nostre chiese, date le premesse fatte, non si dovrebbe andare lontano dalla verità affermando che sono arrivati attraverso la via più logica, ossia attraverso i sacerdoti che prestavano servizio nelle diverse chiese.
Il sacerdote, infatti, era l'autentico interprete e fautore della volontà del vescovo, che, a sua volta, interpretava il codice di diritto canonico e tutte le norme ecclesiastiche.
Insomma nelle chiese comandava il sacerdote, che sapeva cosa si doveva o cosa si poteva fare, cosa non si doveva fare o fin dove era "permesso", eventualmente, trasgredire gli ordini che erano dispensati dall'alto. Perché le piccole trasgressioni avvengono sempre e, di fatto, sono avvenute.

Ad esempio i testi della "Maša" (quelli dei tre "Pred Bogom pokleknimo"), che si riferiscono alle parti invariabili della messa, non erano certamente autenticamente liturgici, in quanto in lingua slovena e non latina e infedeli nella versione dal latino, come è possibile verificare; eppure sostituivano i testi liturgici veri e propri.
Tuttavia se per uno che conosceva l'italiano comprendere il latino era difficile, per uno che conosceva solo lo sloveno, ed era il caso della quasi totalità della popolazione, il latino diventava totalmente incomprensibile.
Il sacerdote, "cum grano salis", permetteva la non grande "eresia" e così da noi spesso (fino a prima della seconda guerra mondiale o, in alcune parrocchie, anche poco dopo) le parti invariabili potevano essere cantate in lingua volgare.
Tutto questo anche sull'esempio di quello che succedeva in tutta l'area slovena.

Comunque era il sacerdote, che aveva una sua formazione ben precisa, a decidere tutto o quasi tutto.

Questa formazione, dal Concilio di Trento o presto dopo, il sacerdote la riceveva in Seminario.
Per arrivare quasi ai giorni nostri, già in quello minore di Cividale, gli aspiranti sacerdoti avevano come materia d'insegnamento lo sloveno oltre che quella di canto.
Tale materia d'insegnamento continuò ad essere presente anche dopo la seconda guerra mondiale nel seminario di Udine ed era addirittura obbligatoria per tutti anche per gli studenti friulani in quanto anch'essi avrebbero potuto prestare servizio nelle aree di lingua slovena.
Ora il canto è un mezzo didattico di prim'ordine nell'insegnamento delle lingue.

Che canti si potevano usare in seminario per tale insegnamento se non quelli religiosi?
Teniamo anche presente che per impararli serviva il libro (le "Pesmarice") e che, una volta imparati, era facile insegnarli nella chiesa di destinazione.
Anche se qualche chierico non riusciva ad apprenderli così bene da essere in grado di insegnarli, ne conosceva almeno l'esistenza e sapeva dove poteva reperirli, per proporli a chi nella chiesa era in grado di insegnarli.
Il bello è che li imparavano tutti, anche i chierici di lingua friulana, perché piacevano.
Personalmente posso affermare che nella chiesa di Pagnacco ancor oggi è cantato il nostro "Marija Mati ljubljena", uno dei nostri più bei corali, naturalmente tradotto in italiano.
Un chierico ha imparato in seminario questo canto; gli è piaciuto tanto che si è preoccupato di tradurlo e di insegnarlo poi, divenuto parroco di Pagnacco.

Don Moncaro ha tradotto o adattato il testo a diverse melodie slovene, scegliendo come lingua sia l'italiano sia il latino (ce n'è oltre una decina tra i manoscritti di Lasiz), mentre ha tradotto in sloveno le parole del canto di Mons. Jacopo Tomadini "Maria, della sua grazia..." "Marija, svoje milosti...", affascinato dalla bellezza di questo canto e dalle parole di un altro canto del Tomadini "O del cielo gran Regina", alle quali parole ha adattato una melodia slovena. Non è forse bella e opportuna questa condivisione di ricchezze?

E' fuori luogo, eppure la voglio citare:
tra i manoscritti di Lasiz c'è anche una nota storica di don Angelo Cont che, tra l'altro, ha trascritto molta musica (aveva una bellissima voce di basso).

La nota si trova al termine di una "Pastorale". Dice:

"Cont Angelo

Udine, 31 maggio 931

Ieri sono stati aboliti i circoli

d'azione cattolica per opera del ..."

Il riferimento è ovvio come la riluttanza a nominare il soggetto di quella repressione.

Il sacerdote dunque era il primo e più importante veicolo nella creazione del repertorio di canti in una chiesa, almeno dopo il Concilio di Trento anche se sicuramente si avvaleva dell'opera dei maestri di coro.
Dei maestri abbastanza recenti conosciamo bene l'identità.
Questo spiega la perfetta aderenza in tutti i nostri paesi alle melodie delle "Pesmarice" (i veri canti popolari, come già detto, offrono sempre varianti anche molto caratteristiche da paese in paese).
Possiamo anzi specificare meglio: la melodia corrisponde sempre alla melodia delle Pesmarice, mentre il testo ha talvolta qualche piccolo adattamento al dialetto "nediški".

La "leadership" del sacerdote spiega anche la presenza del gregoriano in tutte le nostre chiese (il sacerdote lo aveva cantato per dodici anni in seminario).
Con tutto questo non si vuol certamente negare tutto il fenomeno di osmosi che avviene sempre tra aree culturali diverse, specie se limitrofe.
Anzi, in tutto questo rimescolamento di situazioni è bello notare come la condivisione dei beni culturali è ciò che di più interessante possa capitare a comunità che convivono a fianco a fianco.

Il numero dei canti che riportiamo è assolutamente limitato pur essendo in numero di 54.
Sono quelli che sono rimasti ancora nella memoria (e nel cuore) della nostra gente, che sono maggiormente piaciuti e che perciò sicuramente furono i più usati (come è dimostrato anche dalle pagine usurate delle Pesmarice, quella, ad esempio del maestro "Pico" di Mersino).

Personalmente ho ancora vivo nelle orecchie il ricordo del rintronare di voci terribilmente acute e tremendamente e incredibilmente basse nella chiesa gremita di Antro: una massa sonora enorme che mi faceva rabbrividire fin nelle viscere.
Ricordo che nella mia fantasia di fanciullo, frastornato dagli odori d'incenso e incantato dai gesti ieratici di don Giuseppe Cramaro, ripetevo a me stesso:
"Sicuramente in paradiso si canta così!"
Ancor oggi sono convinto che l'espressività umana e la capacità di coglierla hanno in sé qualcosa di divino!

Non a caso, in seguito, lo stesso rabbrividire in tutto il mio essere l'ho provato in certi momenti all'ascolto delle grandi opere musicali, come ad esempio all'inizio dell'"Andante maestoso" della IX Sinfonia di Beethoven.
"Seid umschlungen, Millionen! Diesen Kuß der ganzen Welt!" (Unitevi, o milioni di uomini! Questo bacio vada a tutto il mondo!).
Il fatto incredibile è questo:
dei "poveri" canti popolari sono in grado di offrire le stesse sensazioni delle più grandi, universali e immortali opere.

Oltre tutti i canti della presente pubblicazione ricordo che ad Antro si cantava:
"K tebi, Jezus ljubeznivi", "Tebe ljubi moja duša", "O Jezus, sladki moj spomin!", "Najsvetejši, tebe počastimo", "Pridi molit, o kristjan", "Daj mi, Jezus, da žalujem"! (canto penitenziale), "Kraljevo znamnje", "Raduj nebeška se Gospa!" (pasquale), "Ceščena bodi, o Krakjica!", "Ko zarja zjutraj se razgrinja", "Zdrava, zemplje vse Gospa!", "Vse prepeva".

Quest'ultimo canto ha una strana somiglianza col canto friulano di Luigi Garzoni "Ave Vergin".
Com'è possibile che Garzoni lo conoscesse?
Ebbene tra i manoscritti di Lasiz esiste il canto "Sull'altar ove tu scendi", trascritto a matita da don Moncaro.

Don Moncaro usava tradurre i testi (dallo sloveno all'italiano o viceversa) dei canti che gli piacevano particolarmente, come ha fatto per questo canto di Vavken, la cui melodia ha una precisa somiglianza col canto friulano "Ave Vergin" del Garzoni.

Accanto al canto, nel luogo dove tradizionalmente si pone il nome dell'autore, è scritto Andr. Vavken. E' chiaramente la melodia del numero 73 delle "Svete Pesmice" anche se il testo è italiano: "Sull'altar ove tu scendi, mio Gesù, depongo il cuore..." Ora il maestro Garzoni frequentava molto il seminario.
Ricordo che, fino all'ultimo anno di vita, il giorno di S. Luigi, 21 giugno, veniva sempre in seminario alla festa per assistere ai vesperi solenni e, negli anni in cui ero organista e don Albino Perosa direttore, quando si cantava l'inno a S. Luigi, si piazzava proprio vicino a me per godersi meglio "lo spettacolo".
E' molto probabile perciò che negli anni della gioventù egli sia venuto a contatto con questa nostra melodia proprio per merito di don Moncaro, al quale, come già detto, piaceva molto barattare melodie e testi forse anche in collaborazione con altri compagni.
Senza, naturalmente, togliere nulla alla "scintilla divina" che balenò nel Garzoni, quando compose quel bel canto ancor oggi tanto eseguito.

Naturalmente i canti che più affascinano sono quelli che con gran probabilità sono nati qua da noi. Di essi vorremo fare un commento, ma correremmo il rischio di annoiare.
Per un canto lo corriamo questo rischio, perché è talmente particolare che il non commentarlo musicalmente costituirebbe una grave mancanza.
Il canto è "Kristus je ustu!", un canto manoscritto di Lasiz.
I manoscritti di Lasiz per la maggior parte riportano i canti delle varie pesmarice (o le messe d'autore) e testimoniano l'abbondante uso, che di questi canti era fatto nelle celebrazioni liturgiche.
Il "Kristus je ustu!" (che non si trova nelle Pesmarice) è interessante anche per altri aspetti.

Esistono sette copie di parti di questo canto: due di soprano, due di contralto, due di basso e una di tenore, tutte scritte dalla stessa mano, però in tempi diversi.
Le parti di soprano e di contralto presentano le stesse caratteristiche, come, a loro volta quelle di tenore e di basso.
Le prime (le più vecchie) usano il termine "ustu", le seconde "ustal".
Inoltre le prime all'inizio hanno l'indicazione dinamica "Mogočno" (con forza) e le indicazioni espressive riportate nella nostra trascrizione, mentre le seconde non hanno l'indicazione "Mogočno" e, per quanto riguarda l'espressione, hanno un "f" all'inizio e un "p" all'alleluja.
Tutte le quattro parti, invece, mostrano evidenti diversità d'inchiostro nella scrittura della prima e delle seconde strofe, come pure tra tenore-basso e soprano-contralto; e, infine, queste ultime usano il rosso per le indicazioni espressive.

Interessante è l'esame delle parti dal punto di vista armonico.
Il canto è all'unisono per quasi tutta la prima frase, che è di sei misure; si divide a due voci alla quinta misura per diventare a quattro solo sull'ultimo accordo.
La seconda frase è di quattro misure: comincia all'unisono alla prima misura per continuare a quattro voci nelle altre tre misure.
La terza frase, di sette misure, è a due voci: il tenore e il basso ricalcano il soprano e il contralto, per finire a quattro voci solo sull'ultimo accordo.
La quarta frase è la ripetizione della terza con la variante finale sull'ultimo alleluja, che diventa a quattro voci.

La forma è chiaramente quadripartita, come la stragrande maggioranza dei canti popolari; le frasi sono però irregolari.
Quest'irregolarità non si origina dal testo come ci si potrebbe aspettare; seguendo, infatti, il testo, eliminando vale a dire le ripetizioni del testo, ne uscirebbe una forma quadripartita perfetta, ma nasce spontanea dalla stessa melodia.
Questo potrebbe far presumere l'esistenza di una melodia preesistente legata ad un altro testo, alla quale sono state aggiunte le parole del nostro canto.

Il modo di comporre a più parti di questo canto è caratteristico della musica popolare slovena: ossia l'uso dell'unisono, il raddoppio delle parti tra voci maschili e femminili, l'armonia completa soprattutto sugli accordi finali.
La stesura del canto è, in ogni modo, opera di un "addetto ai lavori", di uno cioè che, almeno in parte, di musica doveva intendersi, ma la cui opera molto probabilmente si è limitata a riportare ciò che il suo orecchio aveva sentito da persone che cantavano spontaneamente.

Questo canto, che è un canto pasquale, è troppo bello per non essere ripreso dai nostri cori, assieme all'altro canto molto interessante di Erbezzo (n.° 49)
"Tebi Marija, blažena Mati",
che mi sono permesso di armonizzare secondo lo stile di "Kristus je ustu!". Ho mantenuto gli unisoni e la seconda voce della registrazione dal vivo.

Per assumermene la responsabilità, preciso che tutte le elaborazioni per coro a quattro voci miste presenti nella raccolta sono state da me fatte.
Queste elaborazioni sono cantate dal coro "Pod Lipo" e sono state inserite anche nella pubblicazione POD LIPO assieme oltre 120 canti popolari profani e religiosi delle nostre Valli.
Nino Specogna
(tratto da CANTI SACRI NEL COMUNE DI PULFERO)


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