E’ uscito FRIULI ORIENTALE

In particolare segnaliamo Fabio, e adesso?

Fabio, e adesso?

Molto probabilmente l’intervista rilasciata da Fabio Bonini al presidente della cooperativa Novi Matajur, il goriziano Rudi Pavsic già presidente della Slovensko Kulturno-gospodarska Zveza (SKGZ) e pubblicata dal Tednik Slovencev videnske pokrajine del 11 marzo scorso, sarà sfuggita alla stragrande maggioranza della locale cittadinanza, soprattutto perché resa in quella slovensčina, comprensibile (forse) solo ai pochi impiegati delle strutture cividalesi della minoranza slovena. Le posizioni espresse dall’intervistato, rappresentano una precisa radiografia della situazione di una parte (infima) della comunità della Slavja. Questa analisi dovrebbe, comunque, interpellare anche i livelli politico-istituzionali italiani e sloveni sull’opportunità di rivedere i termini della tutela delle comunità delle Valli del Natisone, del Torre, di Resia e della Val Canale.

Riteniamo opportuno proporre le riflessioni dell’ing. Bonini anche all’attenzione di quanti, e sono in continuo aumento, si preoccupano del futuro della loro comunità, sclerotizzata da polemiche che non hanno nessun fondamento in un contesto di democrazia europea e, oggi, arrivata sull’orlo del precipizio demografico. E’, quindi, anche nostro interesse fare passare quel messaggio augurandoci che dalle convergenze sulle analisi si possa passare ad un minimo di condivisioni d’intenti.

Il ragionamento di Bonini si fonda sull’affermazione della totale ed indiscussa slovenità nazionale delle popolazioni della Benečija. E’ un’affermazione estremamente importante nella misura in cui cancella definitivamente - ce l’ auguriamo - l’equivoco che vedeva la stessa stampa tradurre, negli articoli pubblicati in lingua slovensčina, il termine narodna manjšina (minoranza nazionale) in “minoranza linguistica”, in italiano. Due concetti sostanzialmente diversi e che fanno la differenza anche se tutti i cittadini della Slavja non ne hanno coscienza. Un altro equivoco - tra i tanti - che viene spesso agitato e che va sfatato è quello della protislovenska attitudine di alcuni settori della locale vita comunitaria. No! Non si tratta di essere “anti-sloveni” ma semplicemente “a-sloveni”, e cioè di non accettare l’assimilazione della propria comunità alla Nazione slovena con la quale si auspica, peraltro, di instaurare proficui rapporti di collaborazione, nella distinzione delle appartenenze nazionali. E non sarà una assurda legislazione di tutela a cambiare la natura dei rapporti tra la comunità della Slavja e la Slovenia.

Nel suo ragionamento Bonini mette in evidenza come l’appartenenza nazionale slovena della Slavja, pur diversa da quelle di Trieste e Gorizia, non è abbastanza affermata determinando una certa apatia che fa si che tanti “benečiani” nascondono la loro nazionalità. Per esempio, i soci e simpatizzanti della Srebrna kaplja si sentono parte della Nazione slovena ? Purtroppo il ragionamento di Bonini su questa significativa condizione identitaria rimane ancorato ad argomentazioni che hanno fatto il loro tempo - fascismo, guerra fredda, gladio, ecc …. – e non lo porta ad interrogarsi sull’inefficacia della legislazione di tutela (L. 38 del 2001 e L.R. 26 del 2007) e degli ingenti finanziamenti investiti in questi ultimi 20 anni per convincere ad essere sloveni quanti sanno di non esserlo. Ma non basta.

In effetti, Bonini, continuando la sua analisi, entra nel vivo delle cause della negatività della situazione attuale: l’assurdità della divisione dei pochi slovenci in due organizzazioni, l’inefficacia della politica informativa, la marginalità della pratica religiosa, l’assenza di un minimo di vita politico-partitica, il fallimento della cooperazione transfrontaliera …. Infine, punta il dito sui pericoli dell’autoreferenzialità delle organizzazioni slovene e sul fatto che i dirigenti di queste associazioni slovene, tra di loro, usano la lingua italiana!

Ma il difetto principale e più importante dell’attività degli sloveni organizzati in queste super-finanziate associazioni della provincia di Udine sta, secondo Bonini, nell’assoluta mancanza di una visione del futuro di questa comunità che Bonini individua nell’affermazione dell’opinione secondo la quale l’essere di nazionalità slovena rappresenti un ulteriore valore.

Condividendo la maggior parte delle osservazioni espresse da Bonini relativamente alle organizzazioni della presunta nazionalità slovena della provincia di Udine - che confermano l’inesistenza della stessa - rileviamo la presa d’atto dell’incapacità degli sloveni di adattare la loro politica ai mutamenti che modificano sia la società locale che quella globale. Un caso eclatante è quello della confessata incapacità di coinvolgere nel processo di rafforzamento ed allargamento dell’evoluzione identitaria della Slavja la sua componente - la più numerosa e la più giovane – collocata all’esterno degli angusti limiti territoriali tradizionali.

Una comunità demograficamente allo stremo, priva di una minima capacità progettuale, con una leadership drammaticamente non all’altezza, che vede ingenti risorse sprecate nel tentativo di convincerla ad adottare una nazionalità non sua, senza una reale ed adeguata rappresentanza politica, ecc … che prospettiva può avere, se non quella dell’estinzione? L’atto Politico preliminare a qualsiasi ipotesi di elaborazione di un progetto di rinascita della comunità dell’antica Schiavonia veneta sopra Cividale sta nel reciproco riconoscimento del diritto ad esistere da parte delle due componenti sociali presenti e del rispetto delle loro diverse opzioni identitarie e cioè quella della BeneŠka Slavja di nazionalità italiana da una parte e quella della BeneŠka Slovenija di nazionalità slovena dall’altra. Questo reciproco riconoscimento, tra identità non ermeticamente chiuse, porterà ad una netta riduzione delle tensioni oggi esistenti - qualche volta provocate ad arte - che sono una rilevante causa di abbandono del territorio, in particolare da parte delle giovani generazioni. Sulla base di questo clima rasserenato potrà essere intrapresa l’elaborazione di un progetto di rinascita e sviluppo della nuova comunità, caratterizzata da un positivo e stimolante pluralismo culturale, identitario e nazionale. Fabio. E adesso ?

Domani sarà troppo tardi

La storia della Slavia, così com’è venuta sviluppandosi specie in questi ultimi cinquant’anni, tra dimenticanze, sopraffazioni ed equivoci, tra colonialismo e finta promozione sociale, tra guerre ideologiche ed interessate strumentalizzazioni, è arrivata all’ultima pagina. La drammaticità della situazione di questa comunità, anticamera dell’immenso mondo slavo e nello stesso tempo roccaforte dei valori occidentali non ha beneficiato delle ricadute socio-economiche che accompagnavano il maturare di rapporti sostanzialmente diversi tra l’ex Europa occidentale e quello che con colpevole approssimazione veniva definito come “blocco comunista”. Lo sfaldamento del tessuto connettivo della Slavia è iniziato con la Prima Guerra mondiale. L’insufficienza reddituale dello sfruttamento di tutto il terreno coltivabile e la crisi della struttura agricola, la parcellizzazione dei fondi, i limiti posti dalle servitù militari, l’impossibilità di produrre reddito da reinvestire in zona, l’assoluta mancanza di incentivi economici - se non di qualche sussidio clientelare - han fatto sì che la forza lavoro in esubero dovesse necessariamente cercare altri sbocchi. E’ stata proprio la prolungata lotta ideologica sul confine orientale a rendere irreversibile, all’indomani della Seconda Guerra mondiale, il processo di disintegrazione della Slavia.

Tra i censimenti del 1941 e quello del 1991, i sette Comuni del comprensorio delle Valli del Natisone sperimentarono il più grande disastro demografico della loro storia: la popolazione passò da 16.195 a 6.835 unità, con indici di invecchiamento estremamente negativi. Il risultato di questo processo di depauperamento umano che è proseguito nei decenni successivi è sotto gli occhi di tutti: una comunità estremamente debole, facile preda dei furbetti e degli opportunisti di turno.

Solo l’affermarsi di una forte coscienza della gravità della situazione nella residua parte sensibile della comunità con radici profondamente ancorate all’humus esistenziale locale e la produzione di un progetto di rinascita e sviluppo, capace di coagulare queste residue forze, può restituirle la speranza di un futuro che non sia quello di un museo, attorno al quale continueranno comunque a confrontarsi esasperanti e distruttivi eterodiretti nazionalismi.

Oggi, la Slavia si trova a dover affrontare la sua ultima sfida che consiste nel recuperare o inventarsi, pur nei limiti di un gruppo sociale numericamente e strutturalmente molto debole, un ruolo e una funzione, in quanto comunità unica e irripetibile, che dia non solo un senso alla sua esistenza ma le assegni anche un ruolo in funzione di interessi più ampi in prospettiva europea. Premessa a tale obiettivo è il recupero della storica dimensione etnico-linguistica che la caratterizza, la distingue e la rende unica.

Il fallimento dei vari tentativi di inserimento di una politica industriale in questo comprensorio, tutti falliti per l’inedia di coloro che furono chiamati a dirigerle, ma anche per l’estraneità dei modelli socioculturali sottostanti agli stessi, rafforza l’ipotesi formulata già negli anni ’80 circa l’opportunità della convergenza delle varie forze in campo su un progetto condiviso di etnosviluppo autocentrato che ponga al centro del suo disegno la valorizzazione delle caratteristiche e delle potenzialità, per lo più inespresse, della comunità.

Il secondo pilastro di questa ipotesi sta nel superamento di una concezione territorialmente limitata dei confini dello spazio vitale della comunità. Ormai, la maggioranza della popolazione della Slavia non vive più sul territorio di tradizionale insediamento. Questo, si è ridotto ad essere solamente un punto di riferimento storico-identitario ed eventualmente centro di coordinamento per una diaspora che va oramai considerata nella sua dimensione planetaria.

Da questa diaspora sono giunti, negli anni passati, sollecitazioni e stimoli per un deciso rafforzamento ed aggiornamento delle prospettive e della qualità dei legami con la comunità di origine. Da quasi trent’anni non si tratta più di soddisfare le attese di coloro che desiderano mantenere un rapporto solo sentimentale e nostalgico con una realtà profondamente mutata e molto diversa da quella che hanno lasciato e nella quale potrebbero non riconoscersi più.

Non condizionati né dalle pressioni assimilatrici di un tempo remoto, né dai tentativi di diversa nazionalizzazione attualmente in corso e, spesso cresciute in società nelle quali la diversità etnica e/o culturale costituisce un dato di positiva normalità, le nuove generazioni della Slavia sparse nei Continenti dovranno - dopo anni di colpevole abbandono - essere invitate a prendere parte alla sfida della costituzione della società della Slavia per il Terzo millennio. Le potenzialità di questa diversa socializzazione della “tribù globale della Slavia” sono inestimabili, ma devono potersi esprimere in tempi eccezionalmente rapidi. Questa è la sfida di oggi. Perdere tempo equivarrebbe ad un suicidio collettivo.
Ferruccio Clavora


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