ASCONA

Ancora Oborza nel racconto di Barbara Pascoli

Arrivò a Oborza che la gente aveva già iniziato a salire verso la chiesa. Prima che la processione si mettesse in moto, però, ci sarebbe voluto ancora un po’ di tempo. Così Ascona pensò di passare a controllare la casa che era appartenuta ai suoi genitori e, adesso che anche la madre non c’era più, era diventata sua.
Le sarebbe piaciuto rimetterla a posto, per venirci a stare almeno d’estate. Ma suo figlio si stava per sposare e aveva bisogno di aiuto. E, siccome non è che nuotassero nell’oro, la soluzione più facile era proprio quella di vendere la casa dove era cresciuta e dove avrebbe desiderato invecchiare.
– Soldi sarà che noi no saremo, – cercava di consolarla il marito che, come tutti i triestini, era anche un po’ filosofo.

Una volta dentro, Ascona spalancò le finestre per arieggiare e, mentre stava armeggiando per bloccare i battenti, scorse Margherita che avanzava lungo la via con un vaporoso abito rosa. Sembrava un’ortensia.
– Vuoi far innamorare Frate Vittorio? – le chiese, ridendo.
– Hai visto che vestito? L’ho preso l’anno scorso, quando è passato il Giro, – Margherita compì una giravolta così ardita da farla quasi inciampare sulle pietre sconnesse della pavimentazione. – È vero che vuoi vendere? – chiese non appena riacquistò l’equilibrio.
– La voci corrono, – rispose Ascona.
– Pensa che ormai su, in cimitero, c’è più gente che qui in paese, – disse Margherita. – Ti ricordi, invece, quarant’anni fa? C’erano la scuola, il forno e l’osteria, – Margherita sospirò. – Eravamo quasi duecento! Mica come adesso che, per contarci tutti, bastano le dita di quattro mani.
– Ho visto che stanno ristrutturando la casa dei Lesizza, – Ascona interruppe la lamentela. – Chi l’ha presa?
– Una coppia di tedeschi, per le vacanze.


La rogazione partiva dalla chiesetta di Sant’Antonio, poco sopra al paese, e arrivava fino all’ultima borgata della valle, al confine con la Slovenia. Si attraversavano tre villaggi, dove ci si fermava a fare merenda con quello che veniva offerto dagli abitanti del posto. Poi, all’arrivo, dopo la messa cantata, ci si metteva a tavola sotto la tettoia del fienile della Edda che, con l’aiuto delle figlie, cucinava la pasta al ragù per tutti.
– Brava Ascona che sei venuta anche tu! – le disse Sergio, abbracciandola con foga. Aveva sempre avuto un debole per le donne e, anche se ormai era vicino ai settanta, non mollava l’osso. Si trattava, però, di una passione innocua perché tutti sapevano che alla moglie non aveva mai mancato di rispetto.
Ascona lo baciò sulle guance. Sapeva già di vino, ma da quelle parti era così: la festa religiosa era un pretesto per fare baldoria e su questo nessuno aveva da ridire, neanche la chiesa. Chi non si ricordava di Frate Franco, che aveva avuto in carico il paese prima di Frate Vittorio? Quando celebrava la messa, usava riempire il calice fino all’orlo.
– Il sangue di Cristo, – lo consacrava. Poi, con cura, se lo beveva, senza lasciarne neanche una goccia.
Anche a tavola si dava da fare e, dopo mangiato, prendeva sempre un caffè corretto per digerire. Se non bastava, si aiutava con qualche bicchierino di grappa.
– Meglio ubriaco che malato! – era una delle sue frasi ricorrenti.

Ascona preparò la macchina fotografica.
– Sei sempre al lavoro! – commentò Sergio.
– Sto preparando un libro sulle Valli, – spiegò Ascona.
– Ci metti dentro anche a noi, come nel film? – Sergio si mise in posa.
Qualche anno prima con Edo, lo scrittore del paese, Ascona aveva girato un film. Era la storia di un contadino di Oborza, negli anni Cinquanta, che beveva e picchiava la moglie e il figlio, prassi allora abbastanza diffusa da quelle parti, sia il bere che il picchiare. Una sera, però, l’uomo, più sbronzo del solito, cade dal calesse e finisce in un fosso. Mentre sta lottando tra la vita e la morte gli appare la madre defunta. Allora capisce di essersi comportato male e, quando si risveglia, si redime.
Al film aveva partecipato l’intero paese: i più estrosi come attori, gli altri come comparse. Lina aveva cucito i costumi e il vecchio Gigi aveva permesso che girassero gli interni a casa sua, dove c’era un bel focolare rotondo, come quelli di una volta.
Alla presentazione, a Cividale, erano arrivati da tutte le Valli del Natisone e la sala del teatro era così piena che in tanti avevano dovuto restarsene in piedi.
– Mi avete fatto ricordare di quando ero bambino, – li aveva ringraziati un uomo, stringendo loro le mani.
– Per fortuna che adesso non è più così! – aveva detto Ascona.
– Si stava meglio quando si stava peggio, – aveva risposto l’uomo, stringendosi nelle spalle. – Allora avevamo poco, ma non ci mancava niente.

La processione si mise in cammino dietro alla croce. A portarla, quell’anno, erano i due figli di Luciano, il falegname, famoso per le sue figurette di legno disseminate in giro per il paese: Padre Pio sulla curva, la Madonna di Lourdes dentro a una nicchia vicino alla fontana e, in un prato a fianco della strada, il Presidente degli Stati Uniti e gli Alpini.
– Sai che sono stata in ospedale? – Ascona distolse l’occhio dall’obiettivo e si girò. Nadia, anche lei vestita a festa, le si era avvicinata.
– Me l’avevano detto che eri stata poco bene. Adesso come va? – si informò Ascona. – Non ho mica avuto paura, lo sai?
Buona come il pane, Nadia non ci stava tanto con la testa e, talvolta, non era facile seguirla nei suoi ragionamenti. – Perché ho visto la Madonna, – rivelò. – Il giorno dell’operazione, prima di entrare in sala, ho visto la Madonna. Aveva il vestito celeste e la testa illuminata. Pregava.
– Ti sarà stata d’aiuto, – commentò Ascona, cercando di mostrarsi partecipe.
– E intanto che pregava, pestava con il piede la testa del serpente e io ho capito che mi proteggeva e che non sarei morta.
Ad Ascona venne da ridere, ma si trattenne.
– Sai che aveva il piede nudo?
Nadia non era l’unica, in paese, a credere a cose che non stavano né in cielo né in terra. La Jole, per esempio, si era convinta che sua sorella le avesse fatto una fattura per potersi impossessare dei beni del padre, ancora in vita.
– Mi ha detto di aver affittato la vigna, ma io sono sicura che l’ha venduta e che si è tenuta i soldi, – le aveva raccontato.
– E tu fatti mostrare il contratto, – Ascona le aveva suggerito.
Jole, però, non voleva mettersi apertamente contro la famiglia e, siccome sosteneva che la sorella le mandava tutte le notti uno spirito maligno per spaventarla, aveva consultato un esorcista.
– Mi ha detto di farmi vedere da uno psicologo, – le aveva riferito dopo la visita. – Ma io non sono mica matta!
Anche nella famiglia di Ascona c’erano state questioni di soldi. All’insaputa di tutti lo zio, fratello della mamma, era riuscito a farsi intestare il grosso della proprietà dal padre malato, così che, quando questi era morto, alla madre di Ascona erano spettate solo cose di poco valore. La poveretta ne aveva sofferto molto.
– Un tiro del genere da mio fratello, sangue del mio sangue, – ogni tanto si lamentava. – Pensare che gli ero stata tanto grata per averci pagato il viaggio di nozze in Svizzera, a me e a tuo padre!
Lo zio viveva ad Ascona, dove la madre le aveva raccontato di averla concepita e dove Ascona, invece, non aveva messo mai piede perché, poco dopo la sua nascita, il nonno era morto, la madre aveva scoperto cosa le aveva combinato il fratello e non aveva più voluto rivederlo.

A mezzogiorno in punto la rogazione raggiunse la tappa finale e tutti si prepararono per l’ultima messa. La piccola chiesetta, che le donne del borgo avevano addobbato con fiori di campo, era gremita.
Ascona si muoveva da un angolo all’altro, per cercare le inquadrature migliori. Fotografò Frate Vittorio, i fedeli, gli angioletti in pietra che reggevano le colonne della volta, il coro di Stregna e, a sinistra dell’altare, una ragazza vestita come una volta, con la gonna lunga e il fazzoletto.
“Chissà di chi è figlia?” si chiese Ascona, tamponandosi il sudore sulla fronte. Le ricordava qualcuno.
La ragazza iniziò a cantare, quasi sottovoce. Sembrava che la stesse guardando. Dober dan. Kaj si nan dobrega prinesu?
Era una vecchia ninna nanna in dialetto. Ascona la conosceva bene, perché la nonna gliela cantava spesso.
“Che caldo,” si disse, passandosi un fazzolettino sugli occhi per togliere il sudore che le velava la vista.
– Ti senti poco bene? – le chiese la moglie di Sergio.
– Esco, si soffoca qui dentro, – rispose Ascona, avviandosi verso l’uscita.
Ma non fece in tempo che a fare tre passi. Poi, come un sacco di patate, si afflosciò in mezzo alla navata centrale. Mentre perdeva i sensi le parve di essere tornata bambina quando, sdraiata sui prati sopra al paese, trascorreva il tempo a guardare le nuvole che passavano nel cielo.

– Alzatele le gambe!
– Lasciatela respirare!
– Datele un bicchiere di vino!
– Datele un goccio di grappa!
– Sto bene, è stato solo un attimo, – Ascona, ancora stordita, cercò di mettersi a sedere. Fu proprio in quel momento che le suonò il cellulare.
– Ti ha cercato un avvocato dalla Svizzera, – sentì dire a suo marito. – Devi andare ad Ascona.
Lo zio, quello che si era intascato tutti i soldi di sua madre, era morto. E lei era la sua unica erede.

Sempre più frastornata, Ascona decise di salutare tutti e di tornarsene in pianura. – Non ti fermi per il pranzo? – chiese Sergio.
– Ma è morto Bepinc? – si informò il vecchio Gino, forse uno dei pochi tra i presenti ad aver conosciuto lo scomparso.
– Potresti mandarmi le foto che ci hai fatto? – la pregò il direttore del coro.
Ascona si fece lasciare l’indirizzo.
– Ho visto che avete una nuova solista, – gli disse.
– Quale solista? – fu la risposta.
– La ragazza, quella con la gonna lunga e il fazzoletto, – insisté Ascona.
In silenzio, Nadia le si avvicinò e le toccò un braccio.
– Nessuno l’ha vista, – le disse sottovoce, ¬– perché nessuno poteva vederla. È venuta solo per te.
Spazientita, Ascona prese la macchina fotografica e cercò tra le immagini che aveva scattato. Ecco Frate Vittorio, Margherita che pregava, gli angioletti che sorreggevano la volta, Sergio, il coro di Stregna, i figli di Luciano, Luciano, Nadia, Gino, quelli dei paesi vicini. C’erano tutti. Della ragazza, però, nemmeno l’ombra.

Grazie ai soldi dello zio, Ascona non solo non dovette vendere la casa di Oborza, ma poté anche a rimetterla a posto. Fu così che, esattamente un anno dopo quella giornata memorabile, tutto il paese fu invitato al pranzo di inaugurazione.
– E questa chi è? – chiese Margherita indicando, in una vecchia foto appesa alla parete, una ragazza con la gonna lunga e il fazzoletto.
– È mia nonna da giovane, – rispose Ascona. – L’ho trovata in un baule, poco tempo fa. Nadia le si avvicinò e le posò la mano sulla sua. Ascona gliela strinse.
All’inizio aveva cercato di giustificare quello che le era accaduto dando la colpa alla pressione bassa, al caldo, alla menopausa… Alla fine, però, ci aveva rinunciato. In fondo, che male c’era a credere che qualcuno, dal cielo, vegliasse su di noi?
– Al nostro paese e ai nostri vecchi, – disse Ascona alzando il bicchiere, – che ci proteggano sempre.
– Ad Ascona, che è tornata tra noi! – aggiunse Nadia.
– Salute e bori e altro no ocori! – brindò il marito di Ascona.
Dopo pranzato, mentre gli altri stavano giocando a carte, Ascona lo prese per mano. – Vieni con me, – gli disse.
Si incamminarono su per un sentiero e in pochi minuti furono sui prati. Da lì si vedeva il paese e, più in là, la pianura.
– Ci passavo i pomeriggi qui, da bambina, – gli spiegò, sdraiandosi nell’erba.
Lui si distese al suo fianco e rimasero così fino al tramonto, a guardare le nuvole nel cielo.

Barbara Pascoli




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