IL MATRIMONIO NELLA BENECIA

Tradizioni matrimoniali nella Benecia


Ci sono nella vita dell'uomo dei "momenti forti". Momenti nei quali, più che in altri si evidenziano e si manifestano i sentimenti, gli aspetti più delicati e più umani della persona. Allora la vera gioia coinvolge, la voglia di vivere preme e dilaga in tutto l'essere. Quali sono questi momenti?

Ecco ad esempio il matrimonio con il suo costume e il suo folklore, ma ... del passato naturalmente: ché l'odierno non fa curiosità.

Volendo calarci col nostro exscursus nei ricordi degli abitanti piuttosto anziani della Benecia, ecco qualche testimonianza.

Era abitudine, in vista del matrimonio, da parte dello sposo, recarsi col mediatore in casa di "lei" a contrarre la dote. Talvolta poteva accadere che il padre di uno dei due si opponesse alle nozze, perché ritenesse la famiglia del richiedente non rispondente alle sue aspirazioni ... economiche.

In tal caso due erano le soluzioni: Scappare assieme lontano, oppure lasciarsi per sempre.

Casi rari! In genere le trattative si chiudevano con esito positivo: un mortaretto sparato in aria annunciava ciò.

Sbrigate, queste formalità si fissava il giorno delle nozze: per tradizione e comodità si sceglieva il sabato. Di conseguenza già il giovedì precedente iniziavano i preparativi, regolati da un rituale ben preciso.

S'iniziava con il trasporto della "bala" cioè del corredo, su un carro trainato da buoi. Era questo anche il momento in cui lo sposo con i suoi amici festeggiava l'addio al celibato; compito della sposa era quello di preparare per gli amici dello sposo gli "struchi" che sostituivano i confetti. Sempre in quest'occasione, lo sposo pagava la "stivanka" ai giovani del paese, perché altrimenti non gli avrebbero permesso il trasporto della bala. La tassa media della stivanka era il corrispondente di cinquanta litri di vino. Se i fidanzati erano di paesi diversi, ciascuno pagava la stivanka ai giovani del proprio paese.

Seguivano i doni fra i due promessi. Lui regalava a lei il "kurdon" (il cordone dorato, a volte tramandato da madre in figlio). Talvolta assieme al kurdon le era pure regalato un largo nastro rosso, con il quale, il giorno delle nozze, ella si sarebbe cinta alla vita: era una forma di scongiuro contro le possibili emorragie del primo parto.

Il venerdì, la vigilia del rito nuziale, tutti e due andavano a confessarsi: la sposa offriva al sacerdote un tovagliolo bianco nuovo.

Per ciò che riguarda la casa: la sorella della sposa o la migliore amica andava ad assestare il letto nuziale, a addobbare la camera matrimoniale. In genere, ai promessi, si assegnava la stanza migliore della casa. Al muro, sopra il letto, era attaccata un'immagine sacra: la Sacra Famiglia o la Madonna e Gesù separati, in direzione dei rispettivi guanciali.

Eccoci il giorno delle nozze.

La sposa era aiutata a vestirsi dalle amiche, mentre lo sposo faceva da sé. Quando lo sposo veniva a prenderla, a volte, per scherzo, ella era nascosta in una stanza, con altre donne che impedivano allo sposo di entrare. A questo punto, lo sposo, stando al gioco, chiedeva della ragazza descrivendola, ma senza dirne il nome. Le sue amiche, fingevano di non capire: ad una ad una uscivano dalla stanza sotto il suo sguardo; per ultima appariva la sposa che, preso sotto braccio lo sposo, s'incamminava, con il seguito, verso la chiesa.

Seguiva la cerimonia.

Quindi partivano per il viaggio di nozze che durava alcune ore. Al ritorno, la sposa faceva il suo ingresso nella sua nuova casa per il pranzo solenne. La suocera attendeva la nuora sulla porta di casa e le consegnava il "meskul" (mescolo) e la "medla" (scopa).

Seguiva, ovviamente, il pranzo nuziale al quale partecipavano i parenti più stretti ed alcuni amici.

Tutti gli invitati maschi portavano un fiore all'occhiello; per lo sposo c'era il mazzetto confezionato da "lei". Anche le donne, ma solo se nubili, avevano dei fiori tra i capelli.

In quel giorno non si mangiava formaggio, ma minestra, pastasciutta gallina o tacchino. Non c'era la torta, ma gli struki e la gubana. La giornata si chiudeva con la festa di ballo. Al momento di coricarsi i familiari offrivano le chiavi alla sposa perché chiudesse la porta di casa prima di salire le scale esterne.

La domenica appresso i parenti acquisiti accompagnavano a messa la sposina. Ciò serviva come pubblica presentazione sia come dimostrazione di buon accordo. Il lunedì seguente, lei metteva a posto le sue cose, indi iniziava la sua vita di lavoro nella nuova famiglia. Per otto giorni, la sposa non doveva assolutamente tornare alla paterna in cui era nata e vissuta fino il giorno del matrimonio, altrimenti la gente avrebbe potuto pensare che non sarebbe stata fedele al marito e che, alla fine, sarebbe scappata da lui.

Infine la prima festa di Pasqua - dopo le nozze - la madre della sposa doveva portare personalmente alla figlia la "pogaza" o "zegnanca" che consisteva in un cestino contenente pane benedetto, piatti, posate, ecc.

Ufficialmente tutto era finito qui, ma iniziava ora veramente quella vita di comprensione, di mutuo aiuto, d'amore vero che si traduceva in silenziosa operosità, in nuove vite che si accendevano, in un amore purificato nella sua enfasi esterna, ma puro e profondo e solo la morte, e forse neppure la morte, poteva sopprimere.
da "ponteEuropa" - n.3 - marzo 1979

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