Morte e funerali: usanze e tradizioni nelle Valli del Natisone

Alcune usanze in occasione della morte e del funerale di un famigliare


La veglia dei morti

Vahti - La veglia, con questa parola è indicata nella Slavia Friulana la giornata della commemorazione dei defunti.
Tale nome deriva probabilmente dal vegliare il morto, un'usanza non dissimile da quella praticata nel vicino Friuli, quando il decesso avveniva in casa ed il defunto vi rimaneva fino alla sepoltura.
Prima dell'agonia il sacerdote portava al moribondo, alle prime luci dell'alba, il viatico, la particola consacrata raccolta in una teca, accompagnato nel percorso da un gruppetto di persone che partendo dalla chiesa, raggiungeva la casa dell'ammalato.

Il gruppetto era composto da un chierichetto, che suonava in continuazione il campanello, da un altro ragazzo che reggeva un lume acceso, dal sacerdote seguito dal nonzolo che reggeva un particolare ombrello decorato a mo' di baldacchino.
Il suono del campanello distoglieva gli abitanti del paese intenti a quell'ora mattutina al governo del bestiame; essi si disponevano ai lati del percorso scoprendosi il capo inginocchiandosi e, facendosi il segno della croce, si mettevano poi al seguito della processione.
Il sacerdote entrava nella camera in cui giaceva l'ammalato; qui trovava predisposto un altarino sul quale c'era un crocefisso di legno intagliato, di cui ogni famiglia era fornita, con a lato due candelieri d'ottone con i ceri accesi.

Le preghiere del sacerdote attraverso la porta socchiusa erano intese anche dalle persone raccolte sulla linda, il poggiolo di legno caratteristico delle nostre case, che rispondevano in modo sommesso, consapevoli del triste presagio, ma confortati dal pensiero che alla dipartita da questo mondo ognuno avrebbe avuto un tale corale conforto.

Se il moribondo aveva una dipartita particolarmente dolorosa ed il respiro molto affannoso, lo si trasportava con tutto il letto sulla linda, nel convincimento che ciò n'avrebbe abbreviata l'agonia e alleviato il decesso.
A questo proposito è ancora diffusa la convinzione che, qualora una persona avesse avuta in vita la visione del "cielo aperto / odparto nebuo", doveva essere posta in punto di morte sulla linda per rivivere tale visione, senza la quale non avrebbe trovato la via per l'aldilà.

Ci sono testimonianze di persone che hanno vissuto questo fenomeno, che consiste in un bagliore accecante. L.P. di Biacis (Pulfero) 82 enne, racconta che nel 1926, trovandosi in compagnia del fratello, sperimentò, egli solo questo fenomeno, spiegandoselo ora, con un vuoto d'aria che per un attimo non fa da filtro tra la persona ed il sole. L., però, non sa spiegare perché lui solo, e non anche il fratello, benché gli fosse vicino, ebbe questa visione dell' "odparto nebuo/cielo aperto".

Sopraggiunta la morte seguiva un determinato rituale: si sbarbava, lavava e vestiva il defunto che poi era composto nella bara fatta in fretta dal falegname del paese, in base alla dimensione della persona.

Accanto al morto erano posti oggetti a lui particolarmente cari: libri di devozione, corona del rosario, un fazzoletto, la tabacchiera, la pipa ed altre cose, che, però, rimanevano segrete, affidate alla discrezione di coloro che preparavano la salma.

A cura dei familiari erano tempestivamente avvertiti del decesso tutti i parenti residenti in zona e lontani, che naturalmente facevano il possibile per essere presenti al funerale.

Durante la veglia notturna, che aveva inizio al termine delle preghiere che tutta la collettività paesana dedicava al defunto, gli uomini e giovani addetti, in gran numero, avevano a disposizione cibo e bevande, in particolare pane, salame, formaggio, vino ed immancabilmente un bottiglione della migliore grappa, che con il suo profumo, confondeva gli sgradevoli odori di medicinali, disinfettanti e del fumo dei ceri.
I veglianti stavano attorno al focolare ed ogni mezz'ora uno o due di essi controllavano che i ceri a lato del defunto fossero accesi a che nella stanza, non fossero entrati animali: cani, gatti, topi od altro.

I discorsi dei veglianti riguardavano naturalmente le vicende del defunto ed argomenti attinenti alla morte. Parlavano dei segni premonitori di morte, quali il canto notturno della civetta sul tetto di una determinata casa, mentre la morte era immaginata come una vecchia nella forma piegata, vestita di nero, fatta di sole ossa e munita di falce.

Altro segno premonitore era il rodere del tarlo nelle travi del soffitto oppure l'ardere difficoltoso e fumigante della candela o del lume ad olio che illuminava la casa.

La morte di una persona era annunciata dal suono delle campane a morto "po martvaško", prima con la campana piccola "po duš o Avemaria" poi con tutti e tre i bronzi.

In caso di morte di un bambino o bambina la bara era di colore bianco ed era portata da coetanei del defunto/a. Ricordo io stesso che in occasione di un parto trigemino, in cui tutti e tre i gemelli non sopravvissero per mancanza dei mezzi di cui oggi dispone la medicina infantile, di avere portato in braccio, all'età di dieci anni, una delle tre piccole salme della famiglia Gusola di Cicigolis.

Per i funerali, anche nei periodi di maggiore impegno agricolo, la gente trovava il tempo di partecipare alla cerimonia che si svolgeva in maniera sempre composta.

Qui da noi il dolore e la mestizia si leggono sui volti rigati di lacrime e nelle manifestazioni concrete di conforto verso la famiglia dello scomparso, con gesti di solidarietà quali l'aiuto nella esecuzione dei lavori che sarebbero stati compiuti dal defunto, nella assistenza agli eventuali orfani e soprattutto nella preghiera per la sua anima.

In cimitero tutti insieme cantavamo le "Vilje" indi recitavamo il De profundis che nel nostro dialetto, comprensibile alla gente, al contrario del latino ufficialmente usato allora nelle cerimonie religiose, assumeva nella accorata invocazione un'intensità superiore alla versione originale.
"Iz hlobočine tebe upijem o Gaspuod, Gaspuod usliši muoj glas..." Chi di noi ricorda ormai queste toccanti preghiere che imparavamo in grembo alla mamma o dalla voce dei nostri nonni, affinché li ricordassimo nelle nostre preghiere?

Molto sarebbe ancora da dire sulle consuetudini per i defunti. A chiusura, però, vorrei rimarcare che nel rito dei morti trova un posticino anche la gubana, il nostro dolce tipico, conosciuto ormai in tutto il mondo.

Ce ne dà testimonianza R.C. di 65 anni di Cicigolis, che provvide alla sbarbatura, composizione e vestizione della salma del paesano A.G. e che ricevette a Natale una gubana con relativo cestino, "Zatuo ki si obriu našega rencega nonolna - per avere sbarbato il nostro nonno defunto".
Luciano Chiabudini - da DOM anno XXIX. n. 19 - 31 ottobre 1994

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