Lingua materna

Traduzione dell’articolo “Materni izik”
Lingua materna
focolare, casa, paese... ciò che è tuo e ciò che è di altri
Tre anni fa e stato scritto il libro, in italiano
“La comunità senza nome. La Slavia alle soglie del 2000”
che mostra ciò che è stato, com’è e ciò che sarebbe bene fosse per la nostra gente che vive nelle valli del Natisone perché possa sopravvivere come una “comunità” particolare.
Poco meno di un migliaio di copie di questo libro, che è stato trascritto anche in lingua inglese, è an­dato per il mondo nelle mani dei nostri emigranti.
Si sa, gli emigranti sono fortemente legati alle proprie radici si interessano per sapere e conoscere più che possono dei propri luoghi, dove han­no abbandonato i propri vecchi e antenati.

Più di qualche “Slovenec” (vedi quanto abbiamo scritto sul numero precedente di Studenci sotto il titolo Slovenec e Slovènj, dove il secondo ter­mine richiama l’identità del valligiano per distinguerla dal generico “Sloveno”) ci ha rimprove­rato per aver scritto in italiano ed in inglese.
Allo stesso modo ci hanno rimproverato per il fatto che questo libretto Studenci non lo scriviamo in sloveno letterario.
E' ovvio che saremmo lieti se fossimo in grado di scrivere correttamente lo sloveno letterario e sicuramente useremmo quella lingua per coloro che lo sloveno letterario lo conoscono bene.
Ma ci sono altri problemi che ci disturbano.

Perché sia chiaro a tutti quello che si intende dire:
” Perché si scrive, perché si parla?”
Si scri­ve e si parla se c’è qualcuno che ascolta o legge ciò che si scrive.
Parli e scrivi se hai qualcosa di buono - o di cattivo - da dire.
E se scrivi o parli per non farlo “al vento”, devi sapere a chi scrivi, chi è quello che ti ascolta o ti legge.

Ma parli e scrivi soprattutto affinché l’interlocutore “ti comprenda”, che sappia cioè cosa pensi, affinché possa essere in accordo o in disaccordo con te; affinché egli sappia cosa pensi.
Queste osservazioni non sono stupidaggini.

Se Kokòc di Moimacco o Stulin di Cravero, quando alla televisione arriva la pubblicità e sal­ta da un programma all’altro, mettiamo che scopra che qualcuno in un qualsiasi programma par­la “il suo linguaggio”, lo sloveno, quello di casa, si ferma ascolta; e ascolterà fino alla fine e dif­ficilmente cambierà programma prima della sua conclusione.

Abbiamo verificato questo quando la gente si accorgeva del programma radiofonico “La campana del Natisone”.
Se alla manifestazione del “Dan emigranta” il teatro Ristori di Cividale si riempie di gente nostra c’è una precisa ragione: Il Beneško Gledališče, la Filodrammatica be­neciana, il nostro gruppo teatrale usa quel meraviglioso linguaggio che lo spettatore ben com­prende, così come accade quando la stessa gente si raccolgono a Liessa di Grimacco per il festivaI della canzone beneciana.
Il queste occasioni tutti i presenti si sentono come in una grande fa­miglia, ridono e parlottano col vicino; sanno che qualcosa li lega l’un l’altro, che sono con la “propria gente” è possibile una tale intesa, perché solo essi hanno le stesse radici, le stesse usan­ze, la stessa lingua.
Più di qualcuno rimane dispiaciuto se sua moglie, che non è “slovena” non ride perché non capisce quel che si dice sul palco.

Ciò che lega questa gente è soprattutto la lingua, “la lingua materna!”
Si ribadisce: “mater­na!”.

La madre dà la vita.
Ma non solo.
Giorno dopo giorno conduce per mano il figlio fino a che non impara a guidare da solo la sua vita.
Gli insegna riconoscere le cose che gli stanno attorno, in casa, in cortile, nel paese, nei campi; e ad ogni cosa che gli insegna ad attribuire il suo nome:
cucchiaio, vestito, muro divisorio, porta... gallo, cane, gatto; pera,, sorgente, meda, e fungo.
La pera è verde o matura, il fungo è buono o velenoso.., l’acqua della sorgente è pura e spegne la sete.

Il bambino impara anche cosa è bene e cosa è male, ciò che va bene o no,, ciò che vale o non vale.
Il bambino cresce e inizia ad amare la sua gente, la casa e il paese, i prati ed i boschi l’aria e i verdi sentieri.
Sa in quale angolo della sua cameretta getta la sua luce il sole al mattino quan­do apre la finestra; conosce il verso degli uccelli che cantano prima dell’alba e sa da che parte lungo la valle corre l’eco del tuono quando cadono fulmini.
Fino a un trentennio addietro, era tutta lì, circoscritta, la vita nei paesi: lavoro in casa e nei campi, giochi per le stradine, funzioni in chiesa...
Tutti parlavano questo nostro linguaggio, avevano le stesse abitudini, le stesse neces­sità quotidiane per tirare avanti.

Oggi non è più così.
Il linguaggio materno si nasconde sempre più dietro la porta di casa, fugge dalla vita quotidiana, son cambiate tante cose.
La televisione, la scuola, i libri ed i gioma­lini, lo sport, la chiesa e... ogni occasione in cui i si raccolgono i bambini, i giovani e gli anziani, conducono all’uso dell’italiano.
La vita per i paesi è cambiata: sempre meno lavori tradizionali e meno usanze del passato... le cose che hanno senso e valore oggi non son più le stesse che ave­vano senso e valore cinquant’anni fa.
La lingua materna, per i bambini sta diventando quello della scuola, quello della chiesa, della piazza, della televisione, dello sport.
Ed è un peccato che non sia il nostro sloveno.

I genitori che hanno bambini piccoli hanno studiato anch’essi nelle scuole italiane e molti di essi, anche se volessero parlare in dialetto sloveno, pur essendone convinti dell’opportunità, tro­vano più facile esprimersi in italiano.
Se chiediamo il perché...
“ci sono molte nuove famiglie per i paesi, così devi parlare in italiano con persone che non conosci!
Oggi non si parla solo di animali e di lavoro di campi, delle difficoltà per tirar su la famiglia; se parli di politica, della vita quotidiana attuale, se aiuti i figli nei compiti scolastici, il nostro sloveno è sempre meno adegua­to!
E un peccato, ma così è!”

Il problema è chiaro.
Sempre più difficile è sapere quale sia “la lin­gua materna” per i bambini che vivono nelle valli del Natisone.
Forse è per questo che la scuola bilingue di San Pietro ha scelto “la lingua slovena standard” come lingua che i bambini impara­no insieme all’italiano.
Forse fare così è più facile: “la lingua slovena” che parlano e scrivono a Lubiana è già strutturato, ha la grammatica, vocabolari, migliaia di libri vecchi e nuovi, lo par­lano alla radio, alla televisione e... anche i triestini sloveni quando vengono a vedere come vivo­no “gli sloveni beneciani”.

Una nuova toppa su di un vecchio vestito?
No, nuovo vestito, dal berretto ai calzini!

Il pro­blema così è risolto?

Per coloro che, sloveni o meno, coscienti ed attivi o meno, che hanno com­preso che una lingua in più non costituisce certo un male per il bambino, in special modo su un confine come il nostro, e che non si domandano che cosa significhi essere o non essere sloveni, perché ciò che interessa loro è avere al sicuro il bambino fino alle cinque della sera senza una spesa eccessiva.., per loro il problema è risolto.
La politica non gli interessa, essi confrontano ciò che hanno per ciò che danno; se non c’è di meglio va tutto bene.

Si sa che il lavoro e la fatica affinché rifiorisca la nostra “identità” affinché maturi dei bei grappoli la vecchia vite, è tutt’ altra cosa.
Una cosa è lavorare tutti per ripulire il campo dai rovi e dalle erbacce che soffocano le nostre vecchie viti che i nostri antenati hanno piantato.
Un’altra è arare un nuovo campo e seminare, piantare nuovi vitigni.
Forse c’è meno fatica, in questo, tutta­via occorre aspettare molto tempo per avere il raccolto.

È diversa la strategia, anche se entrambe affermano che vogliono produrre dell’ottimo vino.

Gli esperti a San Pietro hanno scelto la seconda strada.
Vestito nuovo, campo nuovo.., lingua nuova.
Qui però vengono alla luce problemi nuovi:
i genitori, i nonni e le nonne, si trovano di fronte alla nuova lingua, per loro, così come ti ritrovi di fronte ad una cosa che non conosci, che non senti come tua propria.
E qualcosa di estraneo che a casa non sai ancora adoperare.
Questo già prima ancora che tu decida se sei favorevole o meno.

Questo nuovo vestito = lingua i bambini lo possono usare solo in ambito scolastico ed anche lì non come “di casa” perché è estraneo alle stesse insegnanti.

Si sente dire spesso come sarebbe utile alla nostra gente che avessero la possibilità di vedere la televisione slovena nelle valli.
Ovvio, se la si vedesse ci sarebbe qualche occasione in più per ascoltare “la lingua slovena”; per ora dobbiamo accontentarsi di quei quattro o cinque programmi che ci offrono gli italiani, in ita­liano.
Come sarebbe bello che coloro che hanno imparato bene la lingua slovena la usassero con gli scolari anche per i paesi, e dovunque li incontrino!
Ma non occorre che fare la prova!
Se inizi a parlare in qualche paese dei nostri lo sloveno standard tra la gente che ti conosce, ( sempre che lo sappia) il meno che ti direbbero:
“Parla come t’ha insegnato tua madre!”
Quelli che invece non ti conoscessero ti prenderebbero semplicemente per un forestiero.

Ma ritorniamo al nostro bambino che studia “la lingua slovena.
Cosa gli apporta questa “lin­gua se non è saldamente ancorata alle locali radici di casa?
“Lingua” che la madre, il padre, la nonna, gli altri ragazzi del paese, in chiesa e in piazza nessuno usa?

Quanto ha di “materno” questa lingua?
Sono problemi strategici, questi!
Perlopiù è la politica che si dà da fare per risol­verli, ma sarebbe bene che dessero una mano anche la psicologia, la pedagogia, e... una coscien­za retta ed il semplice buon senso.

Quanti ragazzi, specialmente dalla valle del Torre e del Cornappo, per anni e anni hanno stu­diato nelle scuole slovene di Gorizia: centocinquanta, duecento...?
Dove sono?
Ed in particolare, dov’è la loro autocoscienza dell’appartenenza slovena?
Si sentono “sloveni” (appartenenti alla nazione slovena, ndt.)?
Per ciò che ci è dato di sapere, si sono persi.
Avrebbero dovuto diventare i pali di sostegno dei filari di viti sloveni, attivi e coscienti promotori della cultura slovena tra la nostra gente; si sono persi per primi, prima di tutti gli altri; più di qualcuno ha rinnegato ciò che di “sloveno” gli era stato aggiunto alla cultura ed alla lingua di casa.
Abbiamo i cognomi, i no­mi, e gli anni di questi vecchi e giovani studenti.
Lingua e cultura devono crescere assieme al bambino così che il bambino stesso li accolga col cuore senza forzature.

I tempi son cambiati, è vero.
Sappiamo che insegnare al bambino “la lingua materna” signifi­ca trasferire in lui lo spirito della madre, fargli spuntare le radici in quel determinato luogo in cui vive insieme alla famiglia, offrirgli tutte le bontà della vita “di casa”.
Nella valle del Torre è ve­nuta alla luce una grammatica per insegnare il dialetto, il loro “Po našin (a modo nostro)”.
Là è l’amministrazione comunale stessa che offre il libretto alle famiglie.

A S. Pietro, nella scuola slovena, gli esperti dicono che il dialetto non può essere insegnato; sono i politici sloveni, poi, a dire che “l’appartenenza alla nazione slovena” è fuori discussione.
Il dia­letto - dicono i primi - devono insegnarlo le famiglie a casa; la scuola ha altri doveri, insegnare a leggere e scrivere, e questo non si può nel dialetto.
Come può essere - si chiedono ancora i poli­tici sloveni - che così poco o niente gli sloveni delle valli del Natisone si sentano legati agli altri sloveni da Trieste a Lubiana?

Che si possa leggere e scrivere in dialetto lo dimostra già questo scritto, lo dimostrano i nu­merosi libretti che son stati scritti e ce ne sarà ancora.

Che sia possibile fare nel nostro dialetto, lo dimostrano le trasmissioni radiofoniche come “Nediški zvon”; che la gente ami ancora la sua lingua lo dimostra l’interesse che c’è attorno al teatro sloveno.
Questa è la strada per la quale, forse, i nostri sloveni, se non si perderanno prima, arriveranno anch’essi all’autocoscienza etnica perché possano sentirsi legati a tutto il vasto mon­do sloveno e slavo.
Ed in ciò è proprio la scuola, la scuola slovena che dovrebbe dare una mano decisiva.
Ma per fare tutto questo occorre ancora tanta fatica, sapienza, buona volontà ed opera­re in modo tale che tutta la gente delle Valli del Natisone possano sentire la scuola slovena come loro propria.
Così come, in dialetto ed anche in “lingua” si dice: rana, muro, luce, libro, tavo­lo.. così si può arrivare gradualmente da “Lastuca” (rondine) a “Lastovka”, da “pandiejak” (lu­nedì) a “ponedeljek”, da “izika” (lingua) a “jezika”, da ‘štorja” (storia) a “zgodovina”... da intereša” (interesse) a “zanimanja”.
Proprio per questa strada, bambini e genitori potranno comprendere che, in fondo, la differenza tra lingua e dialetto non è poi così grande.

Il primo impegno è che noi sloveni manteniamo ciò che ci hanno lasciato in eredità i nostri predecessori, che non buttiamo via il nostro linguaggio come un vecchio fuso, perché siamo convinti che non ci serva più.
Forse non fileremo più la lana col fuso, ma abbiamo ancora biso­gno della lana per vestirci.
Una volta per comunicare a distanza nelle nostra valli usavamo i pie­di, le campane o accendevamo fuochi come gli indiani per chiamare aiuto.., oggi abbiamo te­lefoni e automobili.
Una volta la nostra lingua rispondeva alle esigenze del nostro vivere quoti­diano dalla nascita alla morte, dal mattino alla sera, in casa ed in paese.
Oggi le nostre valli han dovuto aprirsi al mondo così che abbiamo dovuto imparare le lingue di tutto il mondo.
E per es­sere “moderni” dobbiamo dimenticare proprio il nostro?
Se sapessimo veramente quale ricchez­za sia possedere questa chiave d’oro, questa lingua che apre la porta a tutte le lingue del mondo slavo, non saremmo così stupidi da buttarlo via come un oggetto arrugginito e consunto nella spazzatura.

La professoressa dell’Università di Udine Silvana Schiavi Facchin ha scritto che se costrin­giamo il bambino ad una lingua che non è materna, egli perde quella chiave con cui potrebbe en­trare in contatto con quello che gli è attorno, con cui può capire e leggere ciò che è l’ambiente che lo circonda; perde anche il sentiero che lo porta alla sorgente che ravviva la cultura in cui si trova a vivere in cui son cresciuti i suoi genitori.
Quando viene a mancare questa chiave che apre a tutto questo mondo egli rimarrà privo di coscienza, non avrà nulla di particolare da ricor­dare, di suo da raccontare, niente di familiare da sognare e fantasticare.

Dato che la professoressa non scrive in dialetto sloveno, e dato che noi, come sloveni delle valli non abbiamo ancora una lingua così sviluppata da poter esprimere ciò che essa scrive in italiano, non faremo neppure lo sforzo per tradurlo.
Essa dice:” L’ingresso di un codice esterno, privo di riconoscibile identità, poiché non è frutto di elaborazione personale, ma trasmette mes­saggi prodotti altrove ha finito per deprimere la sfera delle relazioni interpersonali, erodendo progressivamente la comunicazione tra genitori e figli e tra nonni e nipoti.
I bambini riescono a fatica ad esplorare l’habitat semiotico che li circonda, urbano o rurale che sia.
Vengono meno le chiavi di lettura dell’ambiente naturale, non ci si addentra più nelle pieghe della cultura della memoria per raccontare, fantasticare, immaginare.

L’adulto nella nuova lingua che ha scelto di usare col bambino non possiede sufficienti stra­tegie discorsive e argomentative idonee a costruire solide reti per stimolare e sostenere la comu­nicazione coi bambini.
Una lingua disossata, disancorata dall’esperienza del vissuto individuale e collettivo, che veicola simulacri di mondi piuttosto che referati reali.

Una deprivazione linguistica che non solo compromette la possibilità degli individui di diventare bilingui o plurilingui ma riduce defunzionalizzandola la comunicazione ad una semico­municazione e una lingua ad una semilingua”(*)
Essa, quando scriveva aveva in mente la lingua italiana che era d’obbligo per gli scolari delle nostre valli, quando i genitori non sapevano neppure esprimersi correttamente in italiano.
Non sarebbe il caso di ragionare con questi parametri anche in riferimento al dialetto delle valli del Natisone in rapporto alla lingua slovena?

Sarebbe bene osservare più da vicino quali sono le difficoltà invece che additare come nemici coloro che portano alla luce questi problemi.
Ciò che di casa è di casa, quella esterna è esterna. Può accadere che la cosa proveniente dall’esterno diventi di casa, ma affinché ciò avvenga deve anzitutto essere evidentemente utile e deve attirare la gente perché la faccia propria... altrimenti è indotto a forza.

Ogni persona di buon senso sa che nei confronti del nostro linguaggio la lingua italiana è sta­ta introdotta a forza, specie quando la politica scolastica italiana voleva svuotare le testoline dei nostri bambini della lingua ‘materna”; ma allo stesso modo, ognuno può capire che oggi senza una buona conoscenza della lingua italiana non si può vivere né qui dove siamo, nè altrove.
Il problema è come preservare ciò che di “nostro è ancora rimasto.

La ricetta adottata fino ad ora è stata quella di introdurre a forza un’altra lingua “la slovena standard”, che è senza dubbio più vicina alla nostra, e senz’altro più che solo parente della pri­ma.
Ognuno che non sia stupido o cieco per via dell’occhiale politico, comprende che se nel no­stro linguaggio manca qualche parola (perché non l’abbiamo mai avuta o perché l’abbiamo di­menticata) non dobbiamo certo prenderla in prestito nell’italiano.
Purtroppo, è quello che faccia­mo spesso ed è evidente quale catastrofe sia per la nostra lingua! Il primo lavoro onesto, giusto, e tale che si innesti nella nostra vita quotidiana è raccogliere, preservare e riusare quei vocaboli che ancora sono in uso tra noi, anche se non tutti le sappiamo adoperare abitualmente.
Metter in piedi qualsiasi iniziativa che possa offrire alla nostra gente la bellezza del la nostra lingua, delle nostre usanze; che possa far risorgere il nostro vecchio “orgoglio” per ciò che sappiamo e per i nostri valori, senza politiche preparate altrove, senza nessuna costrizione.

Questo lavoro lo ha iniziato il nuovo istituto che FORUM degli sloveni sta mettendo in piedi: “Slavia via”, per smuovere la coscienza della nostra gente, per aiutare le famiglie, con le fami­glie i paesi e insieme ai paesi tutta la nostra vita nelle Valli del Natisone e nei luoghi dove vivo­no oggi gli sloveni della provincia di Udine.

Questo è l’impegno indispensabile affinché riviva la nostra autocoscienza di sloveni che ci reinnesti nell’albero della cultura slovena.
Se, gradualmente, iniziamo a dimostrare man mano come sia semplice il passaggio dal dialetto alla lingua, specialmente nelle scuole, entro una deci­na d’anni tutti gli sloveni che abbiano ancora l’uso di ragione sarebbero non solo convinti d’aver appreso qualcosa di nuovo, ma drizzerebbero la spina dorsale e constaterebbero che essere “ita­liano sloveno” è essere qualcosa di più che essere solo ‘italiano italiano”.
Essi avrebbero la chia­ve d’oro verso ogni lingua europea. Per lo studio del russo, del polacco, ceco, serbo... a Udine all’università per i suoi figli sarebbe correre in piano senza ostacoli, come andar col carro in di­scesa.
Ed è certo che, se Dio concederà un po’ di pace, l’Europa non si fermerà a Stupizza.
Se non si vorrà comprendere questi concetti e se da qualche parte non si farà altro che difendere in­teressi strani, non se ne farà niente.

Se questi concetti qualcuno dei nostri “esperti” li vorrà prendere in considerazione e com­prenderli, ci sarà qualche speranza che anche il problema politico della nostra tutela legislativa prenda la strada giusta verso una rapida soluzione.
Se, al contrario tutto andrà avanti come sta andando, a noi, che scriviamo queste cose, non rimarrà nient’altro se non la serenità di coscien­za, di non aver taciuto, quando era necessario parlare.

Ognuno è responsabile delle proprie azioni!

(*) Silvana Schiavi Fachin “Linguaggio, lingua ed identità etnico-culturale nel villaggio globa­le” in:
‘Scuola e convivenza” Circolo culturale Jvan Trinko, Cividale, 1989 (pag. 87).
STUDENCI - Periodico di informazione , cultura e politica - Anno VI - N.2 - dicembre 1993
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