Gli anticlericali di San Pietro al Natisone contro p.Banchig

In margine alle celebrazioni per il 150° Anniversario della proclamazione del Regno d'Italia
L'esperienza di p. Antonio Bamchig
Scampato ai pericoli della Secondo guerra d’indipendenza del 1859, p. Antonio Banchig, assieme ad alcuni suoi confratelli, si rifugiò in Trentino, allora sotto l’Impero asburgico.
Nelle valli alpine di quella diocesi predicò con tanto successo le missioni al popolo che divenne uno dei più ricercati predicatori nella Provincia veneta della Compagnia di Gesù.
Nel 1865 venne chiamato a predicare nell’arcidiocesi di Udine, da dove era partito come umile e zelante sacerdote diocesano per entrare nell’ordine che per lui rappresentava una grande aspirazione e la realizzazione della sua vocazione di predicatore itinerante.

Ma anche nel Friuli contadino e religioso avevano già attecchito le spinte risorgimentali in buona parte pervase da idee anticlericali.

Una prima comparsa a Udine di p. Banchig si ebbe nella primavera del 1865.
Da due anni reggeva l’arcidiocesi mons. Andrea Casasola, friulano di Buia, che nella vasta arcidiocesi promosse una vigorosa ripresa dell’azione pastorale e del «sentire cattolico, secondo quella direttrice che a lui sembrava purissima ed irrefragabile: e ritenne che solo i gesuiti potessero provocarla».
(1. G. Biasutti, Padre Luigi Scrosoppi, Udine 1979, p. 205.)

Per saggiare le reazioni dell’ambiente chiamò tre gesuiti già nel mese di marzo del 1865 a predicare un mese di esercizi dall’antivigilia dell’Annunziata, titolare della cattedrale, fino al 23 aprile, domenica in albis.

La reazione alla loro presenza fu violenta.
Fin dai primi giorni della predicazione, scrisse don Ferdinando Blasich,
«i settari cercarono di distogliere i fedeli con minacce; poi fecero scoppiare delle bombe sera e mattina alle porte laterali del duomo ed una persino ad una finestra dell’arcivescovado. Perciò — continua il Blasich — molti si astennero e la missione raccolse poco frutto. La polizia austriaca prese grandi precauzioni; e nel duomo quasi vuoto c’erano a sera molte guardie in borghese, che s’aggiravano anche all’esterno».
(2. Ivi, pp. 205 — 206.)

Una seconda comparsa di p. Banchig nella sua diocesi d’origine avvenne proprio nelle Valli del Natisone.
Era il mese di luglio del 1865 quando vi ritornò come affermato e ricercato predicatore, che con la sua fede granitica e la sua oratoria trascinante aveva mosso innumerevoli folle di fedeli nelle città e nei paesi della Provincia veneta della Compagnia di Gesù e due anni prima era stato l’oratore ufficiale alla celebrazione conclusiva del 3° centenario del Concilio di Trento.
Ad ascoltare il suo dotto e facondo sermone nel duomo, che dal 1545 al 1563 ospitò i Padri conciliari, c’erano cardinali, vescovi italiani e stranieri nonché rappresentanti dell’autorità imperiale austriaca.
Ora il gesuita di Tarcetta si trovava nei suoi paesi, tra la sua gente, di cui conosceva la profonda religiosità, le virtù ma anche le debolezze.

«Terminata la missione di Drenchia — scrive in una lettera al padre provinciale —, e con faticoso viaggio a piedi disceso qui in S. Pietro, ho dovuto riposare due giorni, e stasera sono al secondo giorno di questa importante missione, la quale in vista della numerosa e dispersa popolazione durerà fino alla sera del 16 [luglio]. La prima andò, grazie a Dio, prosperamente e con vivissima commozione di quel popolo, senza ostacoli esterni da vincere. Questa ne presentò molti da parte del partito avverso alla buona causa, ma le loro astuzie e i loro maneggi sono andati a vuoto, e andranno».
(3. Archivio della Compagnia di Gesù di Gallarate.)

Le avversità non facevano arretrare p. Banchig, che aveva conosciuto la faziosità e la violenza degli avversari della Chiesa.
Tantomeno lo mettevano in difficoltà le velleità dei pochi anticlericali di San Pietro sostenuti da quelli di Cividale.
La loro esigua presenza, però, sarà il germe per il radicarsi di un’influente corrente antireligiosa che, con il pretesto della fedeltà al futuro Stato italiano, porrà in atto una possente campagna contro la lingua e la cultura slovene sostenute dai sacerdoti locali.

«Gli avversari al Papa, alla compagnia, alla pietà, e al presente ordine di cose non molto numerosi, ma molto astuti e potenti per la loro influenza — scriveva il gesuita di Tarcetta nella sua relazione sulla missione di San Pietro —, eransi dapprima adoperati con vari pretesti a dissuadere quell’ottimo Parroco (4. Ivi.) dal chiamare un gesuita per la predicazione».
(4. Dal 1851 al 1888 fu parroco di San Pietro don Michele Mucig di Erbezzo.)


Gli anticlericali nascosero la loro avversione alle missioni con motivi apparentemente plausibili, ma anche con minacce e interventi intimidatori sui cappellani e sulla popolazione.
Avevano «rappresentato essere quello un tempo affatto inopportuno a motivo del gran caldo e de’ lavori ne’ prati e nei campi.
Più ancora: aveano tentato intimorirlo col fargli pervenire all’orecchio minacce di potenti apparecchiati a danno di lui e del missionario.
Erano financo riusciti a seminar discordie fra’ cappellani e ad alienarli da esso per modo, che questi vinti dall’inganno, dal timore e da umani riguardi aveano risoluto, e parecchi già concertato, di ricusare e l’assistenza e l’opera loro.
Da ultimo aveano qua e colà impegnati i loro adepti perché distornassero il popolo dal concorrere alle sacre funzioni, e quando queste ebbero principio, sparsero la voce che durerebbero due soli giorni».
(5. Archivio di Gallarate.)
Gli esponenti anticlericali, seppur in netta minoranza, avevano evidentemente in mano le leve per influenzare l’opinione pubblica e creare un clima di paura e di diffidenza.
«Ma Dio benedetto — scrive p. Banchig nella relazione sulla missione di S. Pietro — prese a proteggere l’opera sua, e tutte le arti e gli sforzi degli avversari tornarono a loro smacco e confusione.
La missione cominciata il mattino del 6 luglio con numeroso uditorio andò sempre più guadagnando terreno.
Ai parrocchiani si aggiunsero forestieri distanti fino a 6 ore di cammino, i quali la sera, chi nelle osterie e chi nelle case private, parcamente reficiatisi, faceano con edificazione del popolo e con avvilimento de’ tristi, echeggiare le case e le osterie di sacre canzoni.
Nelle tre feste collocato il palco al fianco esterno della porta maggiore mi vedeva sott’occhio dalle cinque alle sei mila persone, le quali, parte in chiesa, parte in sul piazzale, parte negli orti contigui e parte dalle finestre delle case vicine stavano attente alla divina parola.
Benché si fosse provveduto abbondevolmente, alle 3 pomeridiane mancò per due feste alla povera gente il pane, e quegli osti, che prima aveano brontolato contro il Parroco che chiamava il missionario perché vedeano andare a vuoto i loro progettati festini, ebbero a benedire essi pure la missione, che indirettamente senza strepito e senza disordine dava loro guadagno maggiore.
Chi fra essi avea sparlato di peggio, interpose il Parroco stesso per essere ascoltato in confessione dal missionario.

I cappellani preso animo dal buon andamento delle cose, e quasi costretti a secondar la corrente del popolo fervoroso vennero assidui, come alle prediche, così ad udire le confessioni.
La compunzione in molti era tale, che quantunque in que’ paesi per consuetudine antica ed approvata non si pratichino mai digiuni a stretto magro , e i più per le loro circostanze sieno obbligati dal digiuno, e i confessori si esibissero a commutare i tre digiuni voluti pel giubileo in altre pie opere, molti non accettavano la commutazione, altri benché settuagenari adempivano per prima la condizione del digiuno in cibi strettamente esuriali, altri gli aveano fatti o voleano farli a solo pane ed acqua».
(6. Ivi. Le popolazioni della Slavia, per un’antica disposizione dell’autorità ecclesiastica, erano esenti da alcuni obblighi previsti nei giorni di digiuno e di astinenza. )
Come a dire che i fedeli, mossi dalle parole del missionario, rinunciavano ai «privilegi» loro riconosciuti e praticavano il digiuno e l’astinenza in maniera stretta.
Giorgio Banchig
DOM n. 11 - 2010
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