Il duce lo vuole

Sessant'anni fa Mussolini probiva l'uso dello sloveno nelle chiese della Slavia.
La ricostruzione della vicenda attraverso gli scritti dei preti che si opposero al provvedimento.
«Ieri sera verso l’Avemaria, mentre ero in chiesa a confessare i bambini, un carabiniere venne a chiamare il parroco in caserma per comunicazioni urgenti, diceva lui.
Sicché egli ci andò subito e in caserma trovò il tenente che in modo tutt’altro che cortese gli disse così:
“Sappi che siamo in Italia e che è ora di finirla con l’uso della lingua slovena.
Le dò ordine in nome di S.E. il Prefetto:

a) di predicare e di istruire in chiesa in lingua italiana;

b) di non proferire un sola, una sola parola in slavo ai fanciulli quando insegna il catechismo;

c) i catechismi sloveni sono sotto sequestro.

Le associazioni di azione cattolica in questa zona sono sciolte fino a nuovo ordine.
L’approvazione dell’autorità ecclesiastica non tarderà a venire”.

E così dicendo mi presentò un modulo da firmare che accettavo».

E’ la cronaca scarna scritta nel libro storico della parrocchia di San Leonardo dal parroco, don Giuseppe Gorenszach, della proibizione dello sloveno nelle chiese della Slavia voluta sessant’anni fa dallo stesso capo del governo fascista, Benito Mussolini.

Di questo fatto storico possediamo altri resoconti redatti dai sacerdoti delle valli.
Sono scritti che da una parte tradiscono una maggiore passionalità e consapevolezza della gravità del fatto, dall’altra mettono in evidenza la sfrontata illegalità del provvedimento e i metodi degni del regime fascista.

Il cappellano di Lasiz, don Antonio Cuffolo, nota che la proibizione fu preceduta da una campagna di calunnie, denunce anonime e pedinamenti nei confronti dei sacerdoti locali.

«Quando ai nemici sembrò che l’ambiente fosse già impressionato e preparato — scrive nel libro storico della parrocchia — il tenente dei Reali Carabinieri invitò i più temibili sacerdoti della zona, e cioé i cappellani di Lasiz, Antro, Mersino e Vemasso (rispettivamente don Cuffolo, don Cramaro, don Simiz e don Pietro Qualizza, ndr) per il giorno 16 nella caserma dei carabinieri di San Pietro.

Il tenente presentò ai quattro sacerdoti per la firma una imposizione per la quale da quel giorno non avrebbero più usato la lingua locale nelle preghiere, nella predicazione e nella dottrina cristiana.

I sacerdoti protestarono contro l’arbitraria imposizione contraria alle leggi naturali, ecclesiastiche, ecc.
Ne nacque una violenta discussione che minacciava serie conseguenze.
In conclusione i quattro sacerdoti alla dichiarazione preparata dal tenente aggiunsero di proprio pugno:

“I sottoscritti accetteranno soltanto se l’ordine verrà dato dall’autorità ecclesiastica o almeno attraverso la stessa”.

Detta dichiarazione fece andare su tutte le furie il tenente, ma i sacerdoti non si lasciarono impressionare».

I preti delle valli si rivolsero all’arcivescovo di Udine, mons. Giuseppe Nogara, per informarlo dell’accaduto e ricevere istruzioni.
E lui per mezzo del vicario foraneo, don Giovanni Petricig, raccomandò di accettare l’ordine del governo per evitare mali peggiori ed anche il confino.
Egli intanto, prima di partire per il pellegrinaggio in Terra Santa, si sarebbe rivolto alla Santa Sede per ricevere direttive.

Le ultime prediche in sloveno nelle chiese della Slavia si ebbero, dunque, il 15 agosto, festa dell’Assunzione della Madonna.
Don Giuseppe Chiacig nel libro storico della parrocchia di Tercimonte annota:

«Il discorso tenuto dal cappellano di Tercimonte il giorno dell’Assunzione nella chiesa di Vernasso fu l’ultimo ufficialmente sloveno. Dopo mille-trecento anni di pacifico possesso dell’uso della propria lingua viene l’ordine da parte dell’autorità civile, senza la minima resistenza dell’ecclesiastica, di parlare in italiano».

Il danno alla vita religiosa, all’associazionismo cattolico, alle secolari tradizioni locali, al ricchissimo patrimonio di canti, preghiere e pratiche religiose e allo stesso dialetto sloveno furono incalcolabili.
I sacerdoti se ne resero conto ma le autorità diocesane no.

«E così dopo oltre mille anni, — commenta don Cuffolo — contro tutte le tradizioni, contro tutte le leggi della Chiesa, con danno evidentissimo per le anime solo perché il detto “il duce lo vuole” aveva impedito all’autorità ecclesiastica dì prendere francamente una posizione, è avvenuto un cambiamento nella cura d’anime.

Per le strade, osterie, municipi, botteghe, esattorie si parlerà, si farà i propri interessi adoperando la lingua materna, solo in chiesa sarà proibita.
Proibiti i canti tradizionali e preghiere che non saranno più sostituiti. Il nemico della Chiesa ha raggiunto lo scopo, “il duce lo vuole”»!

Don Cramaro nell’inviare a mons. Nogara una relazione sulle Missioni tenute nella cappellania di Antro in occasione dell’Anno santo della Redenzione, riferisce che, dopo le prediche in italiano, le donne si riunivano in segreto per sentire da lui le spiegazioni in sloveno.

«Ho avuto la sensazione precisa — commenta don Crarnaro — di vivere ai tempi dell’Impero romano, quando i fedeli dovevano radunarsi di nascosto per le proprie pratiche religiose.. .ma quale differenza fra la Chiesa di allora e l’odierna...».

Non trovando sostegno e adeguate risposte dal proprio Vescovo i sacerdoti si rivolsero alla Santa Sede e perfino al duce.

Il curato di Codromaz, don Natale Zufferli, il 4 settembre invia una lettera a Mussolini nella quale illustra con pacatezza i problemi della zona e i ritardi nel campo dell’istruzione elementare.
Ma per don Zufferli la proibizione dello sloveno crea anche problemi di sopravvivenza economica.

«D’altra parte —sottolinea — i fedeli si rifiuterebbero di stipendiare più oltre il proprio vicario quando questi non potesse più prestare il servizio religioso nella lingua da essi intesa e parlata, per tal modo il sottoscritto si vedrebbe privato di ogni mezzo di sussistenza...».

Verso la fine di settembre don Zufferli e don Cramaro, anche a nome degli altri sacerdoti, si recano a Roma per presentarsi alla Segreteria di Stato insieme con l’arcivescovo Nogara appena tornato dal pellegrinaggio in Palestina.

Questo avvenne il 27 settembre 1933.

Furono ricevuti da mons. Pizzardo, Uditore della Segreteria di Stato per gli affari straordinari, e lo misero al corrente di quell’increscioso avvenimento.
Ma quel colloquio non portò alcun risultato.
Allora i due sacerdoti stesero un breve memoriale e lo spedirono a papa Pio XI depositandolo all’ufficio postale del Vaticano.

Di quella lettera non si potè avere mai riscontro ufficiale.
Si sa soltanto che mons. Pizzardo in seguito scrisse a mons. Nogara in questi termini:

«1) Si userà tolleranza circa l’uso della parola slovena nella spiegazione del testo italiano del catechismo ai fanciulli.

2) La predicazione agli adulti deve essere fatta solo in italiano.

3) I sacerdoti che hanno presentato il ricorso alla Santa Sede si sono dimostrati passionali».

Non una parola in più.
Giorgio Banchig


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