Le Valli del Natisone

Una peculiarità geo-etnica alle soglie del 2000
Dal 20 al 22 maggio 1999 si è tenuto a Cividale nella chiesa di S. Maria in Corte un interessante convegno dal titolo Culture maggioritarie e culture minoritarie: incontri e scontri.
Organizzato dall’Associazione per lo svilup­po degli studi storici ed artistici di Cividale il convegno ha ospitato le rela­zioni di una quarantina di studiosi che sono intervenuti su’ temi come il rap­porto tra le nazionalità, tra maggioranze e minoranze di vario genere (etni­che, religiose, politiche).

Due relazioni hanno toccato direttamente anche la nostra realtà.
Lo stori­co Jože Pirjevec è intervenuto sul tema dei rapporti tra la cultura italiana e slovena nel Litorale adriatico, mentre lo scrittore e saggista Franco Fornasaro ha parlato della realtà slovena delle Valli del Natisone.

Su gentile concessione dello studioso avremo modo di leggere in forma integrale il suo intervento, particolannente interessante, poiché partendo da un'analisi sto­rica presenta alcune riflessioni importanti per la nostra realtà culturale. Franco Fornasaro, figlio di istriani è nato a Trieste, vive con la famiglia a Cividale.
Laureato in farmacia, è stato insegnante di matematica, fisica e farmacologia presso diversi istituti; è inoltre rappresentante del comune di Cividale nel consiglio di Amministrazione dell‘Associazione Mittelfest.

Con l’editore Roberto Vattori ha pubblicato diversi romanzi: Incontro (1984), Quale terra? (1988) e Fine stagione (1992) e i saggi Etnie senza frontiere - Istria utopia o laboratorio etnico? (1995), giunto alla seconda edizione e “I Longobardi e la medicina “(con notule di alimurgia e di cucina) (1996).

Con i suoi romanzi e saggi ha vinto diversi premi.
Sono quasi una cin­quantina le sùe pubblicazioni scientifiche di vario genere; ha scritto nume­rosi articoli di politica, di storia, di ecologia e di fitoterapia, classica e moderna.
E’ collaboratore di alcuni periodici e di molte trasmissioni radiofoniche.

Le Valli del Natisone appartengo­no all’area prealpina delle Alpi Giulie e sono considerate da un punto di vista ecologico - ambientale un’isola rifugiale:

- per tipologia di flora (influssi continentali - pannonici e mediterra­neo - pelopponesiaci, nonché residui endemici peculiari ed originali) e caratteristiche arealiche di grande interesse scientifico;

- per abbondanza di fauna (in molti casi in un quadro promettente di ripopolamento naturale);

- per altri elementi geomorfologici suggestivi.

Nello stesso tempo anche in chiave socio - antropologica le Valli del Natisone (similmente ad altre aree viciniori - le Valli del Torre, la Val Resia e l’intero comprensorio del Tarvisiano) sono molto interessanti perché abitate ancora da una popola­zione slava direttamente epigona di una storia millenaria, originatasi tra il VI e il VII secolo dopo Cristo, al seguito dei grandi fenomeni migrato­ri che hanno coinvolto un coacervo di popoli in movimento sia germanici che slavi.

Le prime notizie di insediamenti slavi sul territorio delle Valli del Natisone risalgono, infatti, all’epoca post - latina, altomedioevale e longo­barda; lo si evince per esempio dalla lettura dell’Historia Langobardorum di Paolo Diacono, dove si narra come ad un certo punto, dopo alterne vicende di guerre e di scontri con i vicini, gli slavi trovino una terra su cui fermarsi a vivere in pace, andan­do a colonizzare non solo questo piccolo territorio - le Valli del Natisone - ma un sito geografico ben più vasto, dall’antico Norico fino al mare Adriatico creando così le premesse future dello stanziamento etnico detto più propriamente sloveno.

L’enclave valligiana tuttavia, in questo contesto più ampio e complessivo continua il suo percorso storico (quindi non etnico) all’interno di una propria nicchia peculiare e origi­nale, per molti secoli contraddistinta da una reale forma di autonomia e di libertà, in parte o del tutto sconosciu­ta ad altre espressività etniche conter­mini, slovene e ladino - friulane, in cui il sistema feudale vige in pieno.

Di tale retaggio storico così straordinario ­per l’epoca rimane viva anco­ra per esempio la memoria dei due parlamenti di Antro e di Merso, detti anche Banche, e del Parlamento Piano o Grande Arengo di S. Quirino posto alla confluenza delle Valli del Natisone. Si può dire pure che l'attenzione di Venezia alle popolazioni di questo territorio fu sempre benevola e per nulla poco interessata, desiderosa com'era di avere dei sudditi fedeli a guardia dei confini.
E’ noto come in questo contesto parecchi valligiani contribuirono altresì a formare parti del famoso corpo armato degli Schiavoni nella stessa città lagunare.

E’ anche sulla base di motivi simi­li che a partire dall’epoca veneziana (1420 - 1797), gli abitanti delle Valli del Natisone sentono fortemente l’influsso e l’attrazione economico - culturale della capitale, e, nello stes­so tempo, senza mai perdere la pro­pria matrice etnica, dopo la cesura politica tra l’area patriarchina - civi­dalese e quella dell’alta valle dell’ Isonzo, entrata nella sfera d’appartenenza asburgica, tendono ad allentare i legami culturali ed uffi­ciali con l’elemento sloveno conter­mine, o meglio iniziano a non percorrere più la stessa evoluzione linguistica; e comunque microfenomeni di contatti - scambi commerciali, matrimoni misti, visite pastorali ecclesiali, pellegrinaggi al santuario di Castelmonte - Stara Gora, ecc... - continuano a sussistere sempre.

Rimane in essere, ad ogni buon conto, tra le due aree (quella dell’Isonzo e quella del Natisone) soprattutto la stessa religiosità e il perpetuarsi nel corso dei secoli di alcune forme liturgiche del tutto simili, se non uguali, a testimonian­za di un’identità ancestrale unica: per esempio la celebrazione della messa e l’amministrazione di certi sacramenti come il battesimo ed il matrimonio in lingua slava, usando neI contempo messali glagolitici tipici per molte aree slave del litora­le e dell’Adriatico orientale e certi paramenti sacri detti “alla schiavo­nesca” (cotte, camici, ecc...).

E un’altra curiosità interessante ed importante è la somministrazione per un certo periodo del sacramento eucaristico sotto le due specie del pane e del vino, rito che fa pensare alla concessione data dal Papa Paolo IV alla Stiria, Carniola e Carinzia per impedire che il popolo ricevesse la comunione sotto tale duplice forma solo da parte dei pastori protestanti che ne facevano largo uso in quest’area, dopo la riforma portata avanti dallo sloveno Primož Trubar.

Un esempio dunque, quest’ulti­mo, significativo di come tra le due entità etniche poste al di qua ed al di là del Monte Matajur (la monta­gna - simbolo delle Valli del Natisone), il contatto non sia poi cessato del tutto, ma anzi si può affermare anche che non sia mai venuto meno e che sia stato portato avanti nel tempo in maniera più o meno autonoma da parte di alcuni ecclesiastici autoctoni, i quali non hanno voluto recidere mai del tutto il filo dell'antica appartenenza comune, convinti più di tutti e in tempi non sospetti del progetto di salvaguardia dell’identità slovena, o se si vuole slavofona in senso lato, dei valligiani.

Anche in controtendenza ad alcu­ne fasi storiche avverse a tale idea­lità, come il periodo post- risorgimentale (o momento della riscoper­ta nazionale, sia italiana sia slove­na, ma anche croata e serba), o quello del fascismo, o, infine, l’ulti­mo dopoguerra dove, comunque sia, per quasi un secolo venne a mancare ogni riferimento aggregati­vo di istituzioni culturali laiche pro­prie.

Fra i tanti nomi importantissimi che hanno tracciato dei percorsi in tal senso occorre ricordare: il nun­zio apostolico in Lituania Luigi Faidutti e lo slavista Ivan Trinco.

Nello stesso tempo, dalla domi­nazione austriaca in poi, i valligiani partecipano entusiasti ai moti risorgimentali peninsulari, salutano con favore il 1866, anno dell’annessio­ne all’Italia, e seguono poi tutte le vicende successive, nessuna esclu­sa, legate purtroppo ai nazionalismi del XX secolo.

Eventi resi ancor più dolorosi da un progressivo depauperamento della montagna e dal concomitante fenomeno dell’immigrazione.
Così, al termine del secondo conflitto mondiale, e all’interno di dinami­che laceranti terribili (non si dimen­tichi che anche nelle Valli del Natisone correva un segmento della cortina di ferro ed esisteva un’accettazione del modo di pensa­re duro ad estinguersi secondo il quale italiano = fascista e slavo / sloveno = comunista), partirono dapprima soltanto gli uomini per le miniere del Belgio, per le fabbriche della Germania, della Svizzera, ecc. e poi, negli anni Sessanta li seguiro­no anche le donne e nei villaggi del comprensorio natisoniano rimase sempre più una forte concentrazio­ne di popolazione anziana.

Ma proprio l’emi­grazione diede impulso ad una nuova fase sto­rica ed a una nuova ricerca dell’identità... dall’ organizzazione degli emìgranti (Sviz­zera, 1968) iniziano a formarsi anche in chia­ve locale i primi segni di risveglio di nuove attività culturali e di confronto politico con il passato e con il pre­sente.

A mio avviso è in questa sintesi storica, necessariamente suc­cinta e certamente non esaustiva che si posso­no porre delle doman­de e cogliere delle riflessioni.

Per esempio:
quale futuro si prospetta per quest’area? Per questa nicchia peculiare geo­-etnica alle soglie del 2000? C’è veramente un rischio di etnocidio come qualcuno paven­ta?

Curiosamente in Srečanja od blizu (Incontri ravvicinati) un racconto semiserio, ambientato nel 2038, ho proposto per l’area in questione una mia visualizzazione futura: ancorate ancora e comunque a mondo-Est, le Valli del Natiso­ne saranno abitate da altre popolazioni e risentiranno e risuone­ranno ancora solo in alcuni microtoponimi del loro passato non importa ormai se più o meno sloveno o, sla­vofono, comunque sia un mondo scomparso.

Al di là di un picco­lo gioco letterario, io credo che oggi per quest’area - denomina­ta anche in altro modo nel corso della sua sto­ria - Slavia veneta, Sla­via, Slavia friulana, Benečija, Nediška dolina ecc. si debba abilmente e diretta­mente far riferimento per ogni valutazione ed analisi ad una foto­grafia immaginaria, ad un’istantanea, che mostra come dopo oltre cinquant’anni dalla fine della II° guerra mondiale, in un’Europa che sempre più tiene conto di ogni piccolo sitogeo-etnico, non siano cessate del tutto gravi controversie di tipo politico e pro­prio tra gli autoctoni ci siano almeno due linee di pensiero spesso con­trapposte:

- da una parte la necessità di far riferi­mento culturale e lin­guistico ad una realtà ben definita, quella slovena (con l’otteni­mento o il riconosci.mento dello statùs di minoranza etnica);

- dall’altra la neces­sità di continuare a difendere una realtà storica originale, soprattutto linguistica (con l’ottenimento o il riconoscimento dello status di lingua minori­tana).

Non bisogna dimen­ticare altre rilevanti sfumature: c’è nell’ele­mento locale ancora qualcuno che rigetta ambedue le soluzioni, considerando che la propria parlata slava sia un dialetto che s’impernia su una tra­dizione meramente orale, chiuso dentro le pareti domestiche e qualcun altro che con­sidera la parlata delle Valli del Natisone (al di là di ogni accetta­zione scientifica ormai ampiamente consolida­ta, di considerarla una delle molteplici varia­bili dialettali slovene) una delle tante lingue slave che si sono formate nella storia.

In una situazione così articolata, come ho già rivelato, passa quindi una corrente di notevoli controversie all’interno della comu­nità (ormai ridotta all’osso: poche migliaia di abitanti, una percentuale di anziani elevata e una di giovani assai limita­ta e con molti emigran­ti ormai perduti perché già integrati nei paesi di nuova residenza).

Per cui ci sono i fautori dell'appartenenza linguistico-culturale all’area slovena e ci sono i sostenitori di un’ appartenenza sla­vofona in senso lato; per questi tale apparte­nenza deriva dall’anti­ca radice paleo-slava, preesistente ai rivolgi­menti politici e sociali che hanno caratterizza­to la nascita dell’entità slovena, prima all’interno del mondo imperial-asburgico, poi come tessera importan­te nel mosaico iugosla­vo, e infine soggetto politico e statuale, sovrano e indipenden­te, venutosi a creare dopo la guerra del 1991, che ha posto le condizioni della formazione della Repub­bica di Slovenia.

Un dissidio poco colmabile e di difficile dipanatura, in cui lo studioso e/o l’analista hanno ben poche pos­sibilità di intervenire sia che apportino con­tributi sul versante della filologia (lo hanno già fatto in molti in questo secolo e con particolare atten­zione scientifica!), e quindi sull’ancoraggio di riferimento ad una lingua letteraria ormai, ben definita e standardizzata come lo slove­no, sia che contribuiscano a perseguire un nobile tentativo di valorizzazione slavi­stica complessiva e, quindi in una ricerca di salvaguardia di un patrirnonio che è comunque antichissi­mo ed è costituito da una tradizione orale millenaria (religiosa, ritualistica, naturalisti­ca, musicale - ultimo in ordine di tempo Se zmisleš del maestro Antonio Qualizza -, ecc.).

Tutto ciò perché la chiave di lettura di questa peculiarità geo-etnica continua ad essere soprattutto poli­tica, stereotipata e ancorata ai concetti degenerati soprattutto nel XX secolo di nazionalismo e di principio delle nazio­nalità.

Per cui nelle Valli del Natisone paradossalmente si teme persino la completa attua­zione delle norme costituzionali in mate­ria di tutela etnica e linguistica (artt. 2, 3 e 6 della costituzione) anzi, anche in tal senso le contrapposizioni aumentano e non si smorzano affatto.

In definitiva, questi sono solo alcuni elementi di analisi del perché alle soglie del 2000, per l’area delle valli del Natisone (e più in generale per tutto il comprensorio della provincia di Udine a ridosso del confine con la Slove­nia) sia difficile salva­re una peculiarità geo­etnica e una comunità dal lento e inesorabile inaridimento.

Al di là di tanti ten­tativi, più o meno validi, più o meno nobili.

Un vero peccato per la storia di un popolo che ha saputo dare nel passato grandi prove di vitalità, energia e di ancoraggio ad una memoria storica ed a una identità incredibilmente originali.

La speranza perso­nale, suffragata però da alcuni dati oggettivamente presenti già sul territorio, è che questo processo in qualche modo possa essere smorzato e avviato invece verso una fase nuova di vitalità.

Attraverso interventi di ordine economico (per esempio garantendo ancor più piccoli insediamenti lavorativi di vario tipo), nuove strade di forme di cooperazione artigianale-agricolo-pastorale, di ordine culturale e legislativo. Ma occorre fa presto.
Franco Fornasaro
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