L'imperatore ha riconosciuto la «nazionalità degli abitanti»



Le celebrazioni del 150° anniversario della proclamazione del Regno d’Italia sotto la corona di Vittorio Emanuele II, avvenuta il 17 marzo 1861 nel Palazzo Carignano di Torino, sede del parlamento italiano, dovrebbero costituire un’occasione di riflessione sul significato dell’appartenenza ad uno stato e del rapporto tra questi con tutti i cittadini, senza differenze di status sociale, lingua e cultura. Gli sloveni delle valli del Natisone, Torre e Resia, entrati a far parte del regno d’Italia nell’autunno del 1866, ebbero con il nuovo stato, nato dal Risorgimento, un entusiastico atteggiamento di dedizione che fu ripagato nel peggiore dei modi: il Regno dei Savoia per il quale avevano combattuto ed avevano votato quasi all’unanimità nel plebiscito del 21 e 22 ottobre 1866 li trattò come una malattia da estirpare con cure drastiche.» «Questi slavi bisogna eliminarli» proclamava il Giornale di Udine ad un mese dal plebiscito! Ma eliminarli (ecco la medicina!) «col benefizio, il progresso e colla civiltà» italiana «che deve brillare ai confini, tra quelli stessi che sono piuttosto ospiti nostri». » Dopo mille anni di permanenza pacifica sul proprio territorio queste popolazioni sono diventate «ospiti», forestieri in patria, un corpo estraneo, un bubbone infetto da eliminare al più presto.

Ma che avevano fatto di male questi sloveni per essere trattati in questo modo?

Narrano le cronache che nella notte seguente alla proclamazione del Regno d’Italia essi accesero sulle montagne delle valli del Natisone grandi fuochi in segno di festa e di partecipazione con tutti gli italiani che erano entrati a far parte del Regno d’Italia. » Ma fin dalla prima guerra d’indipendenza essi si schierarono contro l’Austria. Come ricorda Carlo Podrecca (Slavia Italiana, Cividale 1884, p. 24-25) il 21 e 22 aprile 1848 bloccarono sul San Martino i 397 cacciatori austriaci in marcia verso Udine insorta. L’anno seguente numerosi sloveni del Natisone «fra cui Deganutti Giovanni, Strukil Michele, Pirich e Sturolo Gio. Battista di San Pietro, Manzini ingegnere Giovanni del Pulfero, Tomasetig Valentino di Cosizza e finalmente Vogrigh cav. Stefano di Clastra, ora maggiore del R. Esercito in quiscenza, il quale prese parte a tutte le successive campagne dell’indipendenza, da quella di Crimea in poi, parteciparono alla difesa di Venezia assediata dagli austriaci». E Podrecca (ibid.) ricorda ancora che «durante i moti del Friuli nel 1864, ventiquattro giovani slavi fecero una parata in uniformi garibaldine avanti alla chiesa di S. Canciano sopra Vernassino».

Il motivo dell’avversione degli sloveni del Friuli nei confronti dell’Austria può essere trovata nel fatto che il governo del Lombardo-Veneto recepì nel proprio ordinamento l’abolizione, operata delle autorità napoleoniche, delle vicinie, degli arenghi e delle banche giudiziarie, sui quali per oltre un millennio si era basata la vita sociale della loro comunità e che comportavano notevoli privilegi e vantaggi rispetto alle popolazioni friulane.

Come ricordato nel numero precedente di Dom, ad appena due anni dai moti del 1848, gli otto sindaci delle valli del Natisone si rivolsero al governatore del Lombardo-Veneto, feldmaresciallo Josef Radetzki, per ottenere un tribunale di prima istanza a San Pietro degli Slavi con impiegati che «conoscano, parlino e scrivano correttamente, oltre l’Italiano, anche lo Slavo che si parla esclusivamente nel Distretto».

Un’altra occasione per chiedere la restituzione, almeno in parte, delle antiche istituzioni amministrative e giudiziarie della Slavia, è offerta dal progetto di riforma degli enti locali previsto dalle autorità austriache che prevedeva, tra l’altro, l’abolizione del distretto di San Pietro degli Slavi e la sua incorporazione in quello di Cividale.

Questa volta sono gli amministratori del comune di San Pietro a rivolgersi con una petizione ad un non meglio precisato «Eccelso I(mperial) R(egio) Ministro di Stato» (probabilmente per gli Affari interni) per chiedere il mantenimento del distretto in base alla tradizione storica e alla «nazionalità» della popolazione. » Il documento porta la data del 1° marzo 1861, esattamente 150 anni fa e due buone settimane prima che sui 443 deputati del parlamento italiano ben 441 (due votarono contro) proclamarono la nascita del Regno d’Italia.

Nella missiva i tre «deputati» del capoluogo delle Valli, G.B. Miani (?), Antonio Muligh e Giuseppe Struzzo, ricordano la petizione del 1850 e sottolineano che, pur non avendo quella avuto esito positivo, «l’avanzato bisogno di fatto fu riconosciuto e confessato; ed il diritto reclamato non fu, come non poteva essere, contestato. » Quindi lo sconforto ed il dolore di non essere stati esauditi fu sentito vivamente da tutte queste fedeli popolazioni; ed era giustificato, perché proveniente da negato ripristino di un giusto e benefico provvedimento al proprio benessere e delle loro cose, cui giammai può essere impedito loro di aspirare».

Gli amministratori di San Pietro ricordano che «S(ua) Maestà l’Augusto Imperatore non ha trovato d’impartire alcun provvedimento» ma ha stabilito alla petizione allegando il «comunicato» (imperiale), che «nel prossimo conferimento di posti presso la Pretura di Cividale, al di cui circondario appartiene il Distretto di S. Pietro degli Slavi, si avrà il possibile riguardo alla nazionalità degli abitanti […] Il Venerato Sovrano quindi, anch’Egli, ha riconosciuto il bisogno, il diritto e la stessa nazionalità dei supplicanti».

Già, esattamente di «nazionalità» scrivono gli amministratori di San Pietro degli Slavi e sanno bene che la nazionalità si basa su precisi connotati linguistici e su una storia che ha fatto della loro una comunità separata «non solo dal territorio stesso di Cividale ma dalla Patria ancora», come recitano le ducali ed altri documenti delle autorità della Serenissima (cfr. Podrecca, cit., pp. 65-66).

Ma se la richiesta di ottenere un tribunale di prima istanza non fu esaudita, argomentano gli amministratori di San Pietro degli Slavi, «le loro preghiere fondate sul vero, valsero però a conservare la loro autonomia politico-amministrativa «onde il loro Distretto XIV ora XIII di San Pietro fu conservato e rispettato almeno fino al dì di oggi».

Ora, però, è messo in discussione anche questo. «Pur troppo — scrivono nella istanza al ministero viennese — è voce diffusa, che oggi, contro tutta la ragione e giustizia, contro tutti gli interessi e bisogni, contro tutti gli immemorabili e imperscrivibili diritti, sussista e sia avanzata proposta improvvida della soppressione di questo Distretto anche nel Politico — amministrativo e del suo aggregamento a quello di Cividale del Friuli».

Per i «deputati» sampietrini questa eventualità rappresentava una vera sciagura e un’ingiusta punizione per la loro comunità. » «Quindi colpiti a giusta ragione dal grave danno in ogni rapporto ed interesse pubblico e privato, che loro apporterebbe questo nuovo inaspettato ed ingiusto colpo fatale, non possono a meno gli abitanti del distretto di grandemente condolersi e di altamente reclamare contro una tale e per loro dannosa proposta, che sarebbe una vera punizione di tempi e motivi eccezionali, senza avere eglino commessa colpa veruna; e d’invocare vivamente la proclamata giustizia e provvidenza dell’Eccelso I. R. Ministro di Stato di non sanzionarla».



Autore: Giorgio Banchig
DOM n. 5 - 2011
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