Una società agricola autosufficiente, ma aliena alla cooperazione

Don Eugenio Blanchini propone la costituzione in ogni paese di “comitati e subcomitati parrocchiali per avvivare lo spirito di associazione, di riconciliazione a base di principi religiosi che in loro sono forti”
Proprietà disperse e sminuzzate in tante particelle sparse in ogni direzione, tendenza al litigio che porta a cause interminabili e a dispendio di denaro, mancanza di spirito cooperativistico, assenza di direttive e sostegno agli agricoltori da parte delle pubbliche amministrazioni: sono questi, secondo don Eugenio Blanchini, i fattori che frenano lo sviluppo economico e sociale della Slavia (cfr La Slavia, Udine 1901, ristampa anastatica Cividale 1996).
Per rimediare a questa situazione don Blanchini propone la costituzione in ogni paese di «comitati e subcomitati parrocchiali per avvivare lo spirito di associazione, di conciliazione a base di principi religiosi che in loro sono forti». Per risolvere le frequenti liti tra i paesani propone l’istituzione di «un consiglio di arbitri o probiviri, incaricato espressamente di sciogliere almeno tra i soci quelle liti interminabili che formano la più grande rovina economica e morale degli sloveni.
Così si potrebbe tornare alla forma tradizionale propria, naturale di questi pesi nell’amministrare la giustizia almeno nei casi più facili e che derivano più da spirito di puntiglio che da altro…» (ibid. p. 33).

Don Blanchini affida ai comitati iniziative per introdurre migliori razze bovine, per l’istituzione di latterie sociali, di una scuola agricola e di campi modello per la pratica dimostrazione di un’agricoltura razionale.
Ma raccomanda soprattutto l’istituzione di una cassa rurale, di cooperative di scambio tra prodotti del basso e alto Friuli…
Alcune di queste iniziative, soprattutto su iniziativa dei sacerdoti sloveni, si sono in seguito realizzate: in particolare le latterie sociali, ma nel 1911 anche una cassa rurale di depositi e prestiti che vide la luce a Clodig per opera del cappellano di Topolò, don Giuseppe Škur (Prossenicco 1880 — Usa 1934).
Il documento costitutivo era scritto in sloveno! Ma la banca ebbe vita breve a causa della forte opposizione da una parte dei nazionalisti locali, che accusarono don Škur di austriacantismo, dall’altra delle altre banche che imponevano tassi altissimi.
Il sacerdote si trasferì prima a Chialminis (Nimis) poi emigrò negli Stati Uniti.

Una società prettamente agricola, quella della Slavia alla fine dell’Ottocento, con una struttura tradizionale, con poca emigrazione, per lo più stagionale, commercio scarso che riguardava prevalentemente il legname e le eccedenze di produzione dell’allevamento del bestiame (burro, formaggio) e qualche prodotto artigianale.

L’artigianato, appunto, quale incidenza aveva per questa comunità?
Non ci sono dati precisi, ma dal momento che c’era la tendenza a soddisfare in loco alle esigenze delle famiglie, è giustificabile ritenere che di fabbri, muratori, falegnami, calzolai, sarti, ma anche di orologiai, levatrici e persino esperti di medicina naturale (si ricordi il semplicista di Mersino, Stefano Gorenszach, classe 1822, morto nel 1907) ce ne fosse a sufficienza.

Ma c’era anche una produzione di attrezzi agricoli a livello «industriale».
Don Blanchini a questo proposito ricorda «i cestari di Pegliano, i ratsrellari di Tercimonte, i tagliapietra e i muratori di Azzida, i fornacciari di Vernasso e Merso, ecc.» (La Slavia, cit, pp. 27-28).
E precisa:
«A Pegliano in quel di Tarcetta o di Antro durante le giornate piovose e nelle lunghe notti d’inverno si fabbricano a migliaia i cesti e le gerle fatte colle ritorte ricavate dalle verghe più grosse dei nocciuoli.
I loro cesti hanno forma ovale, sono leggeri, molto più forti di quelli dei vimini e costano meno. Per i lavori grossi di campagna e specialmente dei monti i cesti sono adatti e le gerle necessarie.

A Tercimonte invece hanno l’industria propria dei rastrelli di legno.
Anche di questi si fabbricano a migliaia e si vendono come i cesti nei paesi conterranei e soprattutto sul mercato di Cividale» (ibid., nota 1).
E don Blanchini, forte della sua esperienza in campo cooperativistico lancia l’idea «di unire i fabbricatori in società cooperative che potrebbero migliorare la merce ed allargare le piazze d’uscita con certezza quasi di buon esito per la concorrenza che potrebbero fare altri lavori di campagna e per il prezzo a cui si potrebbero vendere» (ibid.).

Accanto a queste attività artigianali spontanee, non va dimenticata quella molto importante dei molini, diffusi capillarmente sul territorio.
Erano tutti molini ad acqua, con uno o più palmenti o stope, in sloveno, che sfruttavano l’energia meccanica delle correnti dei fiumi e dei torrenti di montagna. Per lo più essi erano a conduzione familiare, in qualche raro caso in forma associata (due o più famiglie).

Nel 1878 nelle Valli del Natisone di mulini ce n’erano ben 63, così suddivisi negli otto comuni
(i loro nomi sono tratti dal citato volume di Girolamo G. Corbanese):
Tarcetta 11 (Podcelan, Specognis, Podvarschis, Cicigolis, ben tre a Pegliano e Montefosca),
Rodda 4 (Perovizza, Malin-Brischis, Rodda, Mersino),
San Pietro 7 (Cocevaro, Raccaro, Vernasso, Azzida, Biarzo, S. Quirino e Podar),
Savogna 12 (Crisnaro, Blasin, Marchig, quattro a Cepletischis, due a Polava e poi a Brizza, Pechinie, Masseris e Stermizza),
San Leonardo 11 (Naprode, Ustopen, Postregna, Picig, due a Dolegna, Postacco, Udrien, Podjesizan, Podpuojan, Napuoj),
Grimacco 9 (Liessa Clodig, Podpuojan, Seuza, Sverinaz, Podpuojan, Samalinse, Podogratzan, Urelacat),
Drenchia 5 (due a Patoc, Peternel, Podlogan, Paciuch, Ucoderiana),
Stregna 4 (Bajar, Dughe, Oblizza, Nalogo).

C’era anche una discreta attività estrattiva, in particolare di pietra piasentina a Tarcetta e San Pietro, e di argilla a Savogna, San Leonardo e San Pietro.
L’argilla serviva per la produzione di laterizi.
Nel 1889 il numero delle fornaci era relativamente alto:
a Savogna ce n’erano sette, a San Pietro quattro, a San leonardo tre così pure a Drenchia, dove c’era anche una fornace per la produzione di calce.

Carlo Podrecca (La Slavia Italiana, Cividale 1884, ristampa anastatica a cura di P. Petricig, S. Pietro al Natisone - Trieste 1977) attribuisce lo sviluppo dell’industria laterizia all’abbandono dell’uso di coprire le case con tetti di paglia avvenuta nella seconda metà dell’Ottocento.

«Dopo vari incendi e specialmente dopo quello del 1868 che abbruciò l’intero villaggio di Cepletischis, tutte le case si coprirono di tegole, si sviluppò l’industria delle fornaci per materiali da fabbrica, ed oggi se ne contano cinque nel comune di S. Pietro, cinque in quello di Savogna, quattro a S. Leonardo, una a Stregna ed una a Grimacco» (p. 94).
Giorgio Banchig
DOM n. 13 - 2011
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