I testamenti dei nostri vecchi
Formule rituali e curiosità.
Sono gli ultimi anni della Repubblica Veneta, prima dell’arrivo delle truppe napoleoniche, nella vallata del Natisone.
La vita anche nei piccoli paesi trascorreva tranquilla, oberata dal lavoro quotidiano nella campagna o nel bosco. E gli uomini erano serenemente convinti che «non esser al mondo cosa più certa della morte, ed incerta l’ora di quella», per cui, trovandosi anziani in età o a letto malati, come in tutte le altre parti del mondo chiamano un notaio e due testimoni per esprimere le loro volontà.
Le formule rituali sono simili, ma tra le righe dei documenti, si possono trovare alcune curiosità:
come ad esempio Antonio Bledigh di Altana di 45 anni, prescrive che dopo la morte dovrà esser fatta celebrare dagli eredi una messa cantata nella parrocchiale di S. Leonardo degli Schiavoni e cinquanta messe basse, che dovranno esser celebrate con «la maggiore brevità di tempo, che sarà possibile» mettendo a disposizione un pezzo d’orto per le spese.
Oltre alle candele di cera, lasciò sei corone al nipote Antonio e a ciò «dovrà esser contento, non potendo altro pretendere».
Lo stesso testatore lasciò ad una certa Barbara metà cantina coperta in coppi, per l’assistenza prestata durante la malattia.
Luca Bledigh di 33 anni chiese perdono al Creatore di «tutte le sue colpe commesse in tutto il corso della vita», pregando l’Altissimo «che separata sarà dal corpo l’anima sua, si degni riceverla nel numero dei beati».
Lo stesso lasciò i suoi beni alla moglie Marianna a condizione «che essa abbia a vivere vedualmente insieme con il sottoposto (figlio)» e se caso mai la stessa fosse incinta ed avesse un erede avrebbe dovuto ripartire l’eredità.
Pochi testatori, per le modestissime condizioni economiche lasciavano qualche beneficio ai quattro luoghi pii (non ne conosciamo i nomi) del Friuli ed alla Casa della carità di Udine.
Il notaio Stefano Podrecca nel 1796 riportò le volontà del testatore Luca Lurettigh che per il suo funerale e le settimine (preghiere per i defunti) lasciò una manzetta che doveva esser venduta per le spese.
Prescrisse che il lascito dei beni vada alla moglie Marina e che i figli dovessero restituire in caso di morte in denaro la dote ricevuta consistente in 55 ducati, in una manza, in una capra e tre pecore.
Lo stesso lasciò come legato alla moglie due armente, Otto pecore ed un mucchio di legni tagliati nel bosco detto «Tasagagnam» e tre crediti con altrettante persone del luogo.
Pare che questi testamenti abbiano costituito un modo per tranquillizzare la coscienza, un obbligo di devozione verso il sacerdote, piuttosto che un sincero atto di fede (ma, forse, anche questo è opinabile).
Dovevano, invece, passarsela male un po’ tutti: i poveri che non fruivano mai di lasciti e gli stessi eredi che dovevano dividersi spesso una sola stanza.
Ma questa situazione non doveva cambiare neppure con la rivoluzione francese e con Napoleone che, pur in nome della libertà, aveva requisito viveri, arredi sacri ed ori e
magari la stessa manzetta che doveva servire per le preghiere in favore dell’anima dei testatori.
Paolo Pellarini - DOM 1992