La pietra piasentina

Esaminiamo le cave e le minie­re di cui il nostro territorio è ricco.
Le più importanti di queste sono le cave di pie­tra piasentina che per la sua caratteristica di com­pattezza e lavorabilità costituisce un patrimonio che in questa valle specifi­catamente non ha trovato, per motivi talvolta ingiu­stificati, il suo sbocco industriale e commerciale, al contrario di ciò che si verifica in particolare a Torreano.

I nostri paesi senza le cave sarebbero impensabili in quanto la pietra costituisce la materia prima per ogni tipo di lavo­razione: dal masso di contenimento su cui ricavare il campicello, alla pietra acconciata a costruire le case.
Alcuni tuguri ancora esistenti testi­moniano che dalla pietra si ricava­vano perfino i lastroni per la coper­tura, e dalla pietra si facevano sup­pellettili domestiche, ma anche ope­re decorative e di devozione.

Ogni paese, si potrebbe dire ogni famiglia, possedeva il suo appezzamento di terreno da cui ricavarela pietra per il proprio fabbisogno.
Le case dei nostri paesi sono costruite con pietra acconcia, scalpellata opportunamente negli angoli e lavorata in blocchi di notevoli dimensioni atti a sostenere, disposti in colonna, quella parte sporgente del tetto e la “linda”, caratteristica di tutte le nostre abita­zioni.

Il ricorso alla pietra anziché al mattone, deriva ovviamente dalla disponibilità del materiale e quindi del suo basso costo di manodopera.
Per la buona resistenza agli agenti atmosferici ed alla compressione nonché per la sua compattezza identificabile nei tre tipi a grana fine media e grossa a seconda della dimensione dei granulomi di cui e composta, la nostra pietra ha varcato ben presto i confini del territorio. Gli anziani di Faedis testimoniano che larga parte del materiale utilizzato per la costruzione della loro chiesa parrocchiale proviene da una cava di Tarcetta.

La costruzione di Sant'Antonio a Kobarid

Dalla stessa loca­lità e dal vicino paese di Tiglio è affluita a Kobarid / Caporetto su carriaggi e con il trenino la grande quantità di pietra che lassù venne squadrata, decorata e posta in opera nella costruzione del grandioso Ossario rea­lizzato nel periodo 1935 / 38, posto sull’altura di Sant’Antonio, in cui venne inglobata la precedente chiesetta dedicata al San­to.
L’opera venne eseguita dall’impresa Marchioro di Vicenza.
L’attuale proprie­tario della cava, Graziano Gregori di Tiglio, ci infor­ma di un recente sopral­luogo di studiosi «stranie­ri» che tramite esame di campioni di roccia, fanno risalire lo sfruttamento della cava ad epoca roma­na se non prima.

Utilizzo della pietra piasentina

La pietra veniva ricava­ta con mezzi rudimentali ma ingegnosi, tali da ren­dere agevole l’estrazione di massi talvolta molto pesanti, come ad esempio quella dalla quale si ricavava il secchiaio, “šeglar”, che doveva essere piatta, compatta, abbastanza larga, grossa e lunga.
Abbiamo avuto la testimonianza che per trasportare dall’altura sopra Bia­cis una pietra di questo genere, ven­ne costruita una slitta speciale che con il suo pesante carico giunse a destinazione rotolando sopra grossi tronchi cilindrici imperniati sulla slitta.
I cavatori erano muniti di cunei di legno di corniolo, notevolmente duro e resistente alle scalfitture, che essi battevano a mazza nelle fessure degli strati pietrosi.
Utilizzando poi opportune leve di ferro (štange) la pietra usciva dalla propria sede.
I mezzi di cui si dispone oggi, consentono la rimozione ed il trasporto sul luo­go della lavorazione, di massi imponenti per dimen­sione e peso, operazioni che farebbero sbalordire i nostri anziani scalpellini la cui maestria trovava larga appli­cazione e richiesta, e per il compenso di un pasto, il lavoro non mancava.

Alcuni esperti, studiosi della mate­ria litica, danno per certo che a Brischis ci fosse un laboratorio di scalpellini, così pure a Tiglio dove vie­ne ancora ricordato un certo Martino continuatore di una tradizione familiare che si perde nei tempi, come lo dimostrano le lapide scolpi­te «firmate» da questi mae­stri risalenti alla fine del 1400 agli inizi 1500, cinque secoli fa.
L’ultimo scalpelli­no ben conosciuto ed apprezzato fu un certo Tonfìa, nativo di Mersino e resi­dente prima a Lasiz poi a Tiglio. Da Tonica si poteva­no apprendere molti dei segreti del mestiere che egli regalava per un bicchiere di vino nella vicina osteria, mentre osservava il gioco delle bocce.

Diversi tipi di pietra

L’esperto scalpellino spiegava che ci sono almeno tre tipi di pietra che si adatta ad usi diversi.

Il «grintovac» che ti fa diventare matto e ti spunta lo scalpello tanta è la sua durezza ma anche la sua resistenza alle intemperie ed alla umidità che non riesce ad infiltrarsi. Il «grintovac» è dunque una pietra adatta ai piani bassi delle case per tenere lontana l’umidità.

Il sasso / kaman «zele­nac» invece è più duttile, ha un colore verdolino e va bene per tutti gli usi anche se è difficile trovarne di dimensioni tali, per esem­pio, da ricavarne un truogolo.

La pietra di gran lunga più pregiata per Tonìca è il «sudanac» che, spaccato, brilla di mille riflessi come se fosse composto di sabbia e vetro, fusi, si lascia lavora­re facilmente, «sente» il col­po della martellina che ne stacca la parte voluta, è bello da vedere quando è finito, ideale per i cantonali, insomma il «sudanac» è la pietra più ricercata dagli scalpellini.

Della piasentina abbiamo dato già alcuni elementi descrittivi, ma va specificato il modo di recuperare i grandi massi, i cosiddetti «tro­vanti» che posano avvolti nell’argilla dopo avere subi­to, durante le varie fasi geo­logiche, un rotolamento lun­go i ghiacciai in scioglimen­to che li ha resi tondeggianti e privi di quelle asperità che si incontrano invece nella pietra di cava stratificata.

I cercatori di luoghi sedi­mentati di argilla contenenti a varie profondità i «trovan­ti», sanno riconoscere. immediatamente il terreno che racchiude la preziosa materia prima.

I «trovanti» migliori, meglio stagionati, sono quelli che si trovano in superficie o fino a quattro metri; oltre a questa profon­dità la mancanza di ossige­no li rende «immaturi» e poco resistenti alle piogge ed a particolari logorii, ai quali sono sottoposti, per esempio, i marciapiedi delle città.

Purtroppo, la limitata conoscenza delle norme, a cui devono sottostare i cavatori della piasentina, fa nascere equivoci e sgrade­voli prese di posizione con­tro di essi, che vengono accusati di essere deturpatori del paesaggio, cinici, spregiudicati, interessati solo al proprio tornaconto e quanto di peggio si possa dire.

Anche la stampa dà ampio spazio agli ecologisti, senza che si sia mai sentita la voce opposta.

A sommes­so parere di chi scrive, esiste sempre una via di mezzo per contemperare interessi distanti in modo da farli convergere in un reciproco beneficio.

Ecco un paio di esempi.

A Mersino, nelle adia­cenze della chiesetta di San Lorenzo, vi sono le ‘cosid­dette čela / rocce.
Si tratta di una serie di punte aguzze, svettanti che sono pressoché sconosciute nella loro orrida bellezza.
Più accessibili rocce simili alle čela esisto­no sopra Montefosca, lungo la strada verso Faedis. Seb­bene di dimensioni minori, sono anche esse una bellez­za della natura e tra esse, nella giusta stagione, matu­rano abbondanti e squisiti lamponi che solo i residenti sanno apprezzare.

In questi luoghi sarebbe impensabile lo sfruttamento di una cava, per non guastare la bellezza di queste ope­re della natura, mentre sulla altura di San Donato tra Lasiz e Tarcetta, nella parte dell’abside che guarda verso la valle, in mezzo ad una boscaglia trascurata ed impraticabile, affiorano invece tanti massi di piasen­tina che attendono un possi­bile utilizzo, vivacemente contrastato dai residenti.

Ed ecco una mezza pro­posta:
autorizzare l’escavo della pietra previo l’obbligo e la garanzia di durata tem­poranea della cava, della profondità dello scavo ma soprattutto del ripristino del territorio trasformando lo scavo in un grande balcone sulla valle. Sarebbe un’ope­ra di sicuro richiamo anche per la presenza della chie­setta di San Donato, un tem­po conosciuta come il luogo delle più belle sagre, inver­nali ed estive.

(Ndr.: ci dispiace annotare che l'interessato ha venduto un terreno ai cavatori proprio nei pressi della chiesa di S. Donato)

Il grande piazzale per le auto, realizzato a Castel­monte, insegni.

Le colonne di pietra e altri oggetti

Come ho già accennato in una puntata precedente, nella costruzione delle case la preparazione e la posà in verticale delle colonne e dei riquadri delle porte e delle finestre richiedeva una grande cura e mae­stria.
Le colonne, che normalmente aveva­no la base come pure il capitello allargati, erano di forme diverse (rettangolari, qua­dre, rotonde), tante quanta era la fantasia e l’inventiva degli scalpellini che poi lungo la colonna tracciavano graffiti decorativi che davano eleganza a tutta la casa.

Accanto alla colonna era in pietra alme­no una prima rampa delle scale che porta­no alla «linda», ballatoio, ed al piano supe­riore.
Si trattava di pietre della larghezza di un metro, ed oltre, quindi erano notevol­mente pesanti come pure i riquadri di porte e finestre.
Se si considerano i mezzi allora utilizzati, martello e scalpello, va dato merito ai mastri cavatori se riuscivano a trovare pezzi privi di venature che ne avrebbero compromesso l’integrità.

In casa, oltre al secchiaio, non poteva mancare il martau / mortaio o pestello sen­za il quale non avremmo potuto tritare e sminuzzare la grande quantità di noci necessarie per il ripieno della gubanca / gubana, il dolce delle nostre grandi occasioni.
Nel martau, inoltre, venivano ridotte in polvere i gusci d’uovo, le ossa bovine o porcine tostate al fuoco che integravanoil mangime ed il foraggio dei bovini; vi si pestava il lino per le «pape» oltre ad altre radici ed erbe medicinali.
Sotto la «lovja» trovava posto una pietra tutta particolare con un incavo a «mezza forma di formaggio» e con due supporti in ferro su cui poggiava la ruota di pietra verde (brus) per affilare gli attrezzi da taglio.

Adiacente alla casa aveva la sua piccola abitazione fatta di assi di legno il maiale, che veniva alimentato con le «pomije» ver­sate attraverso una bassa porticina (per impedirne la fuga) in una vasca abbastanza profonda scolpita nella pietra.
Il truogolo / korito, che oggi viene adibito a portafiori o come oggetto del passato, presenta la sua caratteristica nelle erosioni che- l siero ed i denti del suino hanno decorato nel tempo.

Sulla piazza.del paese non mancava la fontana che raccoglieva l’acqua in una capace vasca ricavata in un grosso masso, mentre all’ingresso di molte abitazioni un ignoto scalpellino aveva scavato l’acqua­santiera con la mano che la sorregge, una forma tipica della religiosità della nostra gente.

I paesi percorsi da un corso d’acqua sufficiente a riempire un adeguato invaso, avevano il loro piccolo o grande mulino con la ruota di pietra ricavata in loco.
Altrettanto vale per la pietra circolare usata nel frantoio incavato in un tronco, dove venivano triturate le mele scarte da cui ricavare il sidro.

Da questo sguardo, abbastanza superfi­ciale, sul mondo delle cave di pietra della valle del Natisone ed alla maestria di certe opere realizzate (basterebbe esaminare le mensole della chiesa di San Giovanni in Antro e le lapidi dei costruttori presenti in numerose chiesette) verrebbe da chiederci da dove ci proviene l’ispirazione e la cultu­ra della pietra lavorata.
La risposta ce la danno le lapidi che portano scolpiti i nomi dei maestri di Škotja Loka, ma anche la natura stessa, che nella pietra di Biacis, trova, impressi i simboli misteriosi del nostro passato e la memoria della nostra persa autonomia.

La scoperta del cemento

Se è vero che, la utilizza­zione del1a pietra per la costruzione delle case o di altri manufatti, si perde nel1a notte dei tempi, è altrettanto vero che dall’inizio di queste secolo fino agli anni Sessanta l’estrazione della marna da cemento costituì il primo ten­tativo di trasformazione o di integrazione della nostra misera economia agricola.

Con la scoperta, si dice casuale, che la marna, portata ad una certa temperatura poi tritata, e quindi frantumata e mescolata con sabbia e acqua costituisce un potente legante dopo una breve fase di indurimento, in tutto il mondo industrializzato sorsero in breve tempo iiumerosi stabilimenti per la produzione di questo prodotto chiamato cemento, che ormai fa parte integrante di tutto lo sviluppo edilizio ed industriale mon­diale.

La scoperta del principio con cui si ottiene il cemento avvenne nell’Inghilterra meridionale, e precisamente nella penisola di Portland, che ha dato il nome ad un certo tipo di cemento.

Dall’inghilterra la sua produ­zione si estese al resto dell'Europa e ben presto anche in Italia sorsero iniziative ad opera di imprenditori che intuirono l'eccezionalità della scoperta e il vastissimo campo di impiego che ne sarebbe derivato. A Bergamo venne fondata la prima società, la attuale ltalcementi che detiene ormai, da lunghi anni un monopolio nella pro­duzione del cemento.

Il primo problema non fu la ricerca dei mezzi finanzia­ri, che anzi venivano offerti dalle banche sempre attente alle iniziative remunerative, quanto invece la individua­zione di siti di ampiezza sufficiente in cui le formazioni calcaree avessero i requisiti allora richiesti per il processo produttivo deI cemento.

L’Italcementi costruì ben pre­sto due stabilimenti in Lom­bardia, uno in Puglia, un altro addirittura in Dalmazia, nei pressi di Zara, da cui risulta­va facile il trasporto del prodotto via mare attraverso l’Adriatico, oltre che a riforni­re il mercato dei Balcani.

Il cementificio di cividale

In un suo quadro strategi­co l’ing. Cesare Pesenti, direttore tecnico della Italcementi, sollecitato anche dal chimico Giuseppe Cazzaniga di Vittorio Veneto, che cono­sceva da vicino la situazione del lembo Est dell'Italia, già nella seduta del Consiglio di aniministrazione de28 gen­naio 1907, propose l’acquisto di una area in Cividale ove costruire un nuovo stabili­mento che potesse soddisfare le richieste della zona.
Con­temporaneamente ottenne l’approvazione anche dell’acquisto di alcuni siti formati da sedimenti marno­si.
Dopo soli due mesi la Società italiana Cementi, diventata Italcementi, acqui­stava in Cividale del Friuli, terreni e diritti per la costruenda fabbrica dalla dit­ta Torres & C. di. Vittorio Veneto oltre ad alcune cave nella valle del Natisone.

All'incirca in questo periodo Cazzaniga, l'abile gerente di Vittorio Veneto, coltivava anche un’altra combinazione. Egli aveva preso ­contatto con la ditta” .G. D'Odorico & -C. di Udine, già costituita per 1a costtruzio­ne di una fabbrica in quella località, proponendole la formazione di una società anoni­ma con il 60% all’Italcemnti ed il 40% alla ditta D’Odorico.
La società doveva prende­re il nome di Cementi e Calci del Friuli con sede in Udine.

Il Consiglio di amministra­zione delI’Italecementi già nell’aprile dello stesso anno 1907, si mostrò propenso alla proposta- di fusione, che però per motivi sconosciuti non ebbe seguito.

Il gruppo friulano anzi proseguì nella sua propria iniziativa sostituendo il 19 marzo 1907 la società Cementi del Friuli dando inizio contemporaneamente alla fase realizzativa con la costruzione nello stesso anno ­dello stabilimento di Udine, in via Buttrio, di San Leonar­do (Cemur) nel 1922, di Padova nel 1922 e di Civida­le nel 1925.
Nel 1937 la Cementi del Friuli doveva fondersi con la Cementi del Veneto riunendo a contenere per un certo periodo lo strapotere dell’Italcementi dei Pesenti di Bergamo fino ad alcuni decenni fa quando le cementerie del Friuli e del Veneto entrarono a far parte della Italcementi che provvi­de tosto alla loro demolizione o chiusura.

Ci è sembrato necessario esporre un quadro sintetico della situazione della produ­zione del cemento in Friuli per comprendere meglio quanto tratteremo in seguito per quel che ci interessa più da vicino, vale a dire le cave di marnia.
Le notizie riportate sono state tratte da una publicazione commemorativa interna della Italcementi edita nel 1965.

La ricerca della marna

Per meglio comprendere le ragioni della chiusura ed apertura delle varie cave di marna che la Italcementi e la Cementi del Friuli posero in atto nella valle del Natisone, è opportuno rinfrescare alcune nozioni fondamentali sulle tecniche di produzione del cemento.

Dicono i testi e gli esperti che il migliore materiale che si trova in natura è il carbonato di calcio (Ca C03) che da noi abbondava e la cui qualità era tale che gli esperimenti eseguiti a Vittorio Veneto dettero risultati «soddisfacentissi­mi».

L’impianto di Cividale entrava in funzione nel 1909 e constava di quattro forni e di un mulino per la macinazione con una potenzialità annua di 150 mila quintali di cemento, insaccato manualmenle indi tra­mite insaccatrici meccanicbe.

La cava di Azzida

Il materiale usato in fase iniziale di produzione proveniva dalla cava di Azzida distante 7 chilometri e veniva effettuato mediante appositi carri trainati da cavalli.

Per diversi anni il trasporto eseguito da privati che si attrezzarono per la bisogna, costituì un importantissimo cespite tanto che alcuni imprenditori nostrani da conta­dini divennero trasportatori.
Aziende di trasporto sorsero ad Azzida, San Pietro, Sorzento e Biacis con numerosi addetti non solo al trasporto ma anche alla estra­zione del materiale, operazioni che veniva­no date a contratto.
I carri per il trasporto del pietrame avevano una forma particola­re, con il fondo composto da tavolame di castagno di notevole spessore, robusto e resistente, mentre le sponde, anche esse particolarmente spesse, non si elevavano oltre i 40/50 cm causa il peso del. carico. Particolare cura veniva data ai cavalli, che dovevano essere di grossa stazza, dai gar­retti robusti e docili al comando; normal­mente venivarto acquistati, già adulti e addestrati tramite sensari che si rivolgevano in particolare al mercato ungherese.

I vari esperimenti che si susseguivano sul tipo di materiale per la produzione del cemento, mentre confermavano quale ideale la marna, dettero per risultato che ciò che la natura fornisce ovviamente in modo non infinito, poteva essere sostituto con prodotti artificiali tali da fare raggiungere gli stessi risultati.
Con temperature più elevate ed additivi opportuni, si poté così produrre il cemento utilizzando materiale diverso dalla marna pura e meno oneroso nella produzione.­
Questo il motivo per cui, come abbiamo accennato all’ini­zio, della diversificazione delle cave.

L’aumentata richiesta di cemento con con­seguente ampliamento dello stabilimento di Cividale, portato a sei forni della capa­cità produttiva di 250 quintali ai giorno ciascuno raggiunse la potenzialità complessiva di 350 mila quintali all’anno!).

Lo stabilimento era collegato con la sta­zione. di Cividale mediante raccordo ed impiegava allora (1912) un centinaio di operai.
L’ onerosità del trasporto tramite carri trainati da cavalli che non sempre riusciva a garantire l’approvvigionamento necessario, indusse l’azienda a prendere in esame la fattibilità di una ferrovia a scartamento ridotto che collegasse la cava di Azzida allo stabilimento.

La teleferica di Canalutto - la cava di tiglio

Le cause belli­che della guerra l5/18 bloccarono l’inizia­tiva che venne ripresa a guerra ultimata.
Neanche la pur minore concorrente locale Cementi del Friuli fu da meno e nel suo stabilimento di Cividale fece affluire il materiale tramite teleferica dalla cava di Canalutto, sopra Torreano.
Per lo stabili­mento di Udine invece, avvantaggiato dal­la ferrovia già operante nel tronco verso Caporetto, iniziò lo sfruttamento della cava ubicata fra Ponteacco e Tiglio con tramoggia di carica sporgente direttamen­te sui vagoni.

Questa tramoggia era ubicata a fianco della fermata di Tiglio, ove ora sorge l’hotel Natisone e dove fino a questo secondo dopoguerra era ben visibile una enorme ruota che sorreggeva il cavo a cui erano appesi i vagoncini sospesi. Tramite un opportuno meccanismo, dai carrelli la marna cadeva nella tramoggia.

Cava e cementificio di Cemur

La cava di tiglio venne abbandonata ed in sua vece sorse lo stabilimento di Cemur dove il cemento veniva prodotto direttamente in loco. Tale piccolo stabilimento, con una decina di addetti, venne chiuso negli anni '60, nonostante la opposizione della popolazione e degli amministratori locali di cui esiste memoria, senza alcun risultato però.

Oltre ad Azzida, gli Interessi della’Ital­cementi si rivolsero in un primo momento ad una località più vicina e precisamente appena fuori dell’abitato di Sanguarzo, dove venne costruita anche una grande casa ora ristrutturata che recentemente venne adidibita ad alloggio per gli operai della cava di Vernasso.
La marna di San­guarzo però non risultò eccellente e le ricerche risalirono lungo la valle, sempre sulla destra del Natisone, fermandosi in un primo tempo ad Ocùlis.

La coltivazione delle cave di marna, im­ziata nel 1909 con l’apertura della prima ad Azzida da parte della Italcementi, ebbe seguito con altri tentativi il più vicino pos­sibili allo stabilimento per proseguire nella ricerca di altri siti lungo la dorsale destra del Natisone, sulle falde del Mladesena.
In realtà la cava di Sanguarzo che dai nativi viene indicata con il microtoponimo di gja­ve, cava in friulano, venne utilizzata «ab immemorabili» per l’estrazione della pietra da costruzione, sia per le esigenze degli abitanti di Sanguarzo, sia per i cividalesi. I tecnici del cemento notarono però che le pietre erano ricoperte in superficie da mate­riale marnoso di cui venne estratto un cam­pione ed esperimentato.

I risultati non furono incoraggianti per l’epoca a causa delle tecniche di produzio­ne obsolete: oggi anche questo materiale sarebbe più che buono per il cemento, pre­via aggiunta di correttivi e temperature ade­guate.

La cava di Oculis

Saltiamo a piè pari la grande cava di Vernasso, ultima cronologicamente ma la più importante per fornitura di materiale, di cui parleremo in seguito per giungere ad Oculis, un paese costruito dirimpetto a San Pietro e quasi addossato al monte.
Qui ven­ne posto allo scoperto un tratto di terreno scosceso sul quale fu costruita una tramog­gia di ridotte dimensioni, ancora ben visibi­le quando il bosco che la ricopre si spoglia del fogliame.
Nella cava di Oculis trovaro­no lavoro numerosi residenti ed operai dei paesi vicini come Vernasso, San Pietro, Spagnut e Biarzo.
La marna che veniva estratta in quel sito si dimostrò di eccellente qualità e finchè la vena lo consentì, con essa veniva alimentato lo stabilimento civi­dalese che aumentava giorno per giorno la sua produzione.

La cava di Tarcetta

Ecco allora il prolunga­mento della ricerca verso Tarcetta e la contemporanea costruzione della ferrovia a scartamento ridotto con i vagoncini ribaltabili che venivano riempiti dalle tramogge di Oculis, allora ancora in atto, e Tarcetta.

Con l’avvento del trenino, prima trainato da locomotiva a vapore poi con motrice elettrica a corrente continua, si evidenziò un grande cambiamento per quanto riguar­da il trasporto ed i suoi addetti.
Molti carra­dori furono costretti a cambiare attività, per lo più ritornando alla agricoltura a tempo pieno e vendendo cavalli e carri utilizzati per tali trasporti.
Nella grande cava di Tarcetta venivano impiegati oltre cento operai, tra minatori, spaccapietre, addetti alla tra­moggia, fabbri manutentori, apprendisti porta-acqua, carpentieri addetti ad opere di sostegno e via dicendo.
Questi addetti pro­venivano da tutto il comune di Pulfero e nel periodo post 1936, avevano la precedenza coloro che contribuirono alla con­quista dell’impero» in terra d’Africa.
Uomini di Tarcetta, Antro, Lasiz, Cicigolis, Rodda e Mersino, Biacis e Cras, ogni mat­tina, giacca sulle spalle, si recavano a «spezzare le reni» cavando dal monte il ricercato materiale.

Una squadra era addet­ta alla «scoperta», vale a dire a disboscare, ad eliminare lo strato di terra od argilla in modo tale che i minatori potessero fare la loro parte.
Il compito di questi ulti­mi consisteva nella formazio­ne di fori nei blocchi marnosi atti a contenere i cilindri di esplosivo.
La dinamite era custodita in un apposito fab­bricatino posto distante dalla cava e rigorosamente interdet­to ad estranei.

La lunga barra di acciaio ben temprata, usato per praticare i fori, aveva la punta a margherita i cui «petali», percossi dalla mazza, scalfivano la roccia penetrando in profondità secondo le esi­genze e l’esperienza maturata.
In quel tem­po nella cava di Tarcetta non era ancora giunto il martello pneumatico che espelle automaticamente i detriti perciò di tanto in tanto, con un particolare cucchiaino chia­mato «spazeta» veniva estratta la polvere formatasi sul fondo del foro.

Giunte le ore sedici di ogni giorno lavorativo, preceduti dal suono di una tromba, risuonavano lun­go la valle una serie di boati dovuti alle esplosioni che incidevano con profondi squarci la roccia.

Dopo una attenta ispezio­ne da parte del responsabile della cava, pri­ma Berto Onesti diTiglio indi il figlio Lui­gi per terminare con Gino Balus di Lasiz, si procedeva allo scavo in profondità trami­te leve, mazze e picconi, per sminuzzare la marna, a caricarla su carrellini di servizio e rovesciarla nella capace tramoggia dalla quale sarebbe stata prelevata per caricare i vagoncini del treno.

Lo sfruttamento della cava di Tarcetta però incideva pericolosa­mente la montagna rivelando fratture nel terreno su cui posava la strada per Pegliano e Spignon.
Anche per questo motivo la cava venne chiusa.

La cava di Coliessa

Un’altra importante cava esisteva a Coliessa, quasi sovrastante la grotta di Antro.

Da qui il materiale veniva calato su filo fino a giungere al percorso del trenino, ove venne eretta una enorme tramoggia a torre che ancora sovrasta il paese di Cras.
Una data a grandi numeri incisa sul frontale del­la tramoggia indica nell’anno 1926 l’inizio dello sfruttamento della cava di Coliessa e del trasporto del materiale lungo il traccia­to ferroviario opportunamente dimensiona­to.

Negli ultimi anni ‘30, le cave di Tarcetta e Coliessa lavoravano a pie­no ritmo riuscendo a sod­disfare tutte le richieste di mercato.

A Tarcetta, anziché in scoperta, alfine di salvaguardare la stabilità del terreno, si procedette allo scavo in galleria con alcu­ne aperture disposte a rag­gera che si inoltravano nel monte.

Altrettanto venne fatto a Coliessa e ad Oculis, rimasta in attività.
Avan­zava intanto l’epoca delle ruspe azionate da un solo addetto che con la benna portava il materiale dall’ interno della galleria per essere versato direttamente nella tramoggia.

Gli operai che gradata­mente andavano in pen­sione non venivano sostituiti da nuove forze, il cosiddetto «turn-over», bensì dalle macchine in grado di svolgere il lavoro con maggiore speditezza ed in aumentata sicurezza rispetto ad eventuali fra­ne.

L’estrazione della mar­na tramite la ruspa però non tolse completamente qualsiasi rischio, così la grande azienda di Civida­le decise di aprire una nuova cava ove non esi­stessero pericoli per stra­de e paesi e dove fosse possibile cavare sufficiente materiale che con l’aggiunta di prodotti inte­grativi artificiali forniti dalla industria siderurgica poteva raggiungere i livel­li ottimali richiesti.

La cava di Vernasso

Venne così aperta la cava di Vernasso, posta alle falde terminali del Mladesena, lungo un ampio fronte che procede­va dal basso verso l’alto creando larghe piste di accesso per il prelievo di materiale.

Il sito prescelto era ben noto ai ricercatori di fos­sili per la ricchezza di reperti rinvenuti in passa­to, alcuni unici nel loro genere, in particolare modo pesci alati, gastero­podi ma anche flora prei­storica, che dimostravano la presenza di una palude in cui si fossilizzarono fauna e flora.

L’occhio degli abitanti di Vernasso guardava naturalmente con mag­giore simpatia l’avvicen­darsi nella cava dei cerca­tori di fossili piuttosto di quella rumorosa e detur­pante del paesaggio delle ruspe.
L’accorciata distanza dalla cava allo stabilimen­to causò anche la chiusura della ferrovia a scarta­mento ridotto che parten­do da Tarcetta, con un percorso di 10 chilometri trasportava il materiale direttamente in fabbrica.

La manutenzione di una linea ferroviaria è ancora oggi molto onero­sa; vanno aggiunti poi i costi di sosta per la revi­sione della locomotiva.
La migliorata rete stradale e lo sviluppo della motoriz­zazione fecero optare per il trasporto su strada così il breve tratto di cinque chilometri veniva percor­so dai grossi camion della ditta Folicaldi di Cividale, appaltatrice in esclusiva.

Con la chiusura delle cave di Tarcetta, Oculis e Coliessa, tutta l’econo­mia della zona ne risentì negativamente, in parti­colare il comune di Pul­fero che contava ancora numerosi addetti.

Il segretario comunale del tempo, geom. Massi­mo Plozzer, ricorda che d’un tratto vennero a mancare alle casse del comune, privo quasi di qualsiasi altro cespite, la bellezza di oltre due milioni (siamo nei primi anni ‘60) che proveniva­no dal Tesoro come tassa sulla industria di cui era gravata la Italcementi. Questa entrata sicura e costante consentiva l’accensione di mutui per le opere pubbliche in atto.
La gente vide con ram­marico la scomparsa del trenino, trainato inizial­mente da una locomotiva a vapore per adeguarsi alla fine degli anni ‘40 con la trazione elettrica. Questi era entrato a far parte del paesaggio, alcu­ni addirittura ne usufruivano abusivamente, cari­cando le proprie merci per il mercato acquattati sul predellino del vagoncino.
All’ingresso nello sta­bilimento i clandestini scendevano dal convoglio felici di avere risparmiato una camminata di chilo­metri.

La costruzione del trac­ciato ferroviario era entrata a far parte anche della archeologia a motivo di quanto venuto alla luce fra le macerie del castello di Ahrenberg, posto ai piedi della grotta di Antro.
Narra l’anziano luigi Puller di Biacis che durante gli scavi vennero scoperti scheletri umani ed attrezzi vari in ferro.
Ma il rinvenimento passò inosservato e lo scavo del tracciato ferroviario pro­cedette speditamente.
E’ possibile che i fianchi del­la trincea, entro i quali correva la piccola ferro­via, nascondano ancora i reperti che un metal detektor sarebbe in grado di rivelare.

Tutto bene quindi con la grande cava di Vemas­so e con i trasporti della ditta Folicaldi, salvo il fatto che per i nostri lavo­ratori si aprivano porte al buio, quali il Belgio con le sue miniere di carbone, la Nuova Caledonia con le miniere di metalli prezio­si, l’Australia con le can­ne da zucchero da tagliare col machete come a Cuba, il Canada ed infine Man­zano e le sue vernici tossi­che.

I responsabili della Ital­cementi però, come d’altra parte tutte le izidu­strie inquinanti, non ave­vano fatto i conti con la sensibilità sempre cre­scente delle giovani gene­razioni impegnate nella salvaguardia del paesaggio e dell’ambiente.

Questa esigenza era particolarmente sentita dai cividalesi a causa del­le polveri bianche che le ciminiere cospargevano sulla città con pericoli certi di malattie alle vie respiratorie.
Un’altra campagna di sensibilizzazione venne promossa dall’ architetto Valentino Simonitti di Vernasso, persona atten­tissima alla salvaguardia di tuttu ciò che poteva riferirsi alla specificità della Benečija.
Simonitti denunciò in numerosi interventi il deturpamento del Mladesena ottenendo alla fine soddisfazione anche se in modo indiret­to.

Sull’onda della giustifi­cata protesta, lo stabilimento di Cividale cessò gradatamente la produzio­ne pochi anni fa, coinvol­gendo nella operazione anche la cava che rimase ed è ancora aperta per il solo mantenimento della licenza di concessione. La produzione. si spo­stò a Trieste utilizzando una cava carsica già aper­ta ed usufruendo del materiale di scarto della ferriera di Servola, proba­bilmente.
I pochi operai rimasti a Cividale, com­presi i nostri cavatori, vennero posti di fronte al dilemma di trasferirsi nel­la lontana e costosa Trie­ste, oppure essere licen­ziati.

Rimasero così disoc­cupati anche i pochi addetti nella cava di Ver­nasso e con questo atto veniva chiuso un capitolo nella storia economica della valle senza contro­partite.

La pietra calcare per le fornaci di calce

Avevano gran, cura i nostri predecessori nel mantenere le proprie case linde ed accoglienti, in modo particolare nel dipingere almeno una volta l’anno i muri ed i soffitti delle stanze con il bianco di calce.
Questa operazione era eseguita normalmente per Pasqua oppure alla fine del ciclo produttivo del baco da seta, vale a dire verso la metà luglio.

Com’è ben noto tale idropittura si ottiene miscelando in acqua la calce spenta proveniente dalla fornace dove è pro­dotta secondo il metodo che sarà descritto in seguito.

Nella valle del Natiso­ne l’unica di queste fu costruita nel dopoguerra per iniziativa di tre soci nativi del luogo. Ma pri­ma ditale data, da dove proveniva la calce utiliz­zata per svariati usi?
Sembrerà ridicolo, ma parecchi anziani da me interpellati non hanno saputo dare una risposta. Uno afferma che in casa ne avevano una scorta in una tinozza inu­tilizzata, l’altro afferma che ne chiedeva un poco in prestito dal vicino, il terzo non sa cosa dirmi ma sono certo che dopo la lettura di queste note, salteranno fuori le mille risposte che per ora non si possono dare.

A mio parere, ritengo che la gente se ne approvvigionasse a Civi­dale dove un Suber di Biacis aveva costruito una fornace alimentata con l’abbondante quan­tità di ciottoli alluvionali ricavati dalle bonifiche del terreno sassoso che inizia al termine del degrado prealpino.
Per usi edilizi invece, sarà stata la stessa impresa costruttrice a provvedere con un apposito trasporto su carro.

(Ndr: -La calce per uso familiare o paesano veniva prodotta sul posto.
Nel Patok, sotto Mersino Alto, posso testimoniare d'aver visto i resti di un “piccolo” forno, e mi fu detto che lì venivano cotti i sassi per farli diventare calce viva)

La calce aveva ed ha ancora un’infinita serie di applicazioni, oltre alla imbiancatura delle case e quale elemento della malta in edilizia. Assie­me alle mura domestiche, anche la stalla, il porcile ed il pollaio venivano in qualche modo irrorati con acqua e calce, consi­derata da sempre quale disinfettante.

Le persone anziane ricorderanno certamente che l’unico rimedio in passato per la lotta alla peronospora della vite, alle malattie crittogame in genere come la bolla del pesco e ad alcune orticole, consisteva nella irrorazione tramite pom­pa a spalla di una miscela di solfato di rame e calce spenta.

Alla calce veniva attri­buita la proprietà di dife­sa dalle malattie crittoga­me o fungine anche sin­golarmente ed a questo scopo ancora oggi vediamo in primavera alcuni tronchi di fruttiferi dipin­ti con la sola calce.
Sap­piamo invece che la sua funzione consiste nel ridurre il grado di acidità del solfato di rame che danneggerebbe le gemme bisognose di protezione già all’inizio vegetativo di primavera.

Il notevole consumo di calce per gli usi sopraci­tati ma principalmente per la ristrutturazione edilizia che timidamente incominciava a dare segni di ripresa grazie alle rimesse degli emi­granti, fece da stimolo a tre intraprendenti uomini della valle che decisero, come abbiamo accenna­to, a costruire in proprio una fornace.

Promotore fu il noto impresario di Ponteacco Mirko Birtig che utilizza­va una buona parte di calce per la sua impresa.
Mirko era conosciutissi­mo lungo tutta la valle e non c’è paese dove non abbia lasciato il segno della sua operosità nel ramo edilizio.
Fu tra i primi a possedere un motocarro Guzzi dal colore grigio, mezzo di trasporto allora specifico degli impresari che lo usavano per l’approvvigionamento dei materiali e per lo spostamento del­le attrezzature di cantiere.
Soci di Mirko, altret­tanto conosciuti, furono altri due Birtig e precisa­mente Natale - Pek, di Brischis e Antonio -Tonines di Specognis.

Il luogo prescelto per la costruzione della for­nace in località Mala Štupca, fra Linder e Stu­pizza teneva conto della grande quantità di legna nei boschi dei dintorni ma soprattutto dei massi di calcare che franavano continuamente dal monte a ridosso del forno di cottura.

La produzione della calce, in un forno che deve raggiungere 850°, è a ciclo continuo median­te la immissione all’interno del vano di cottura a strati alternati combustibile e calcare. Aprendo la boccaporta posta nel punto più basso si fa uscire la cosiddetta calce viva.

Per essere utilizzabile, questa va spenta nell’acqua secondo regole che la esperienza inse­gna per evitare ustioni od altri infortuni, causa la grande produzine di calore che si ssviluppa in questa operazione.
Si ottiene così un prodotto candido e molle detto grassello.
Il grassello miscelato con la sabbia forma la malta.

I libri e le enciclope­die affermano che la cal­ce trova infinite applica­zioni oltre che nell’edili­zia. Essa costituisce una componente della soda, della potassa, dell’ammoniaca, del vetro e perfino dello zuc­chero.
Chi avrebbe mai pen­sato che dagli insignifi­canti massi di calcare di Mala Stupca si potessero ottenere tante meravi­glie!

La concorrenza delle grandi fornaci poste lun­go le sponde del fiume Torre mise in crisi l’azienda dei tre Birtig che cedettero la proprietà ad un imprenditore friu­lano nell’era in cui il grassello di calce si affacciava al mercato privo di difetti e servito in comode confezioni di nylon.

Lungo la statale 54, nei pressi di Stupizza. i ruderi della fornace sono oggi monumento e testi­monianza degli intra­prendenti tre B.

Sabbia, ghiaia e pietre dal freto del fiume

Una grande, lunga, ricca cava, dove tutti si servivano per il proprio fabbisogno senza alcun permesso, rendendo anzi un buon servizio al regolare deflusso dell’acqua, era il greto del fiume Natisone.

Esso forniva gratuita­mente alcuni elementi indispensabili per l’edili­zia ma anche per altro.
Il suo percorso relativa­mente tortuoso, con ampie anse che determi­nano la velocità delle piene, fa si che in deter­minati luoghi, ad esem­pio nella parte interna di una ansa, si formino sul­la sponda degli strati di deposito, a seconda della dinamica del fluido, di sabbia e ghiaia più o meno fini.

Gli abitanti dei paesi rivieraschi conoscevano bene questi luoghi impo­nendo anzi un certo dirit­to di concessione agli estranei per il prelievo dei materiali ricadenti nel territorio adiacente di loro proprietà.
Vi erano comunque dei luoghi considerati di nessuno dove alcuni intraprendenti ragazzi prelevavano la sabbia che poi vendevano, tra­sportandola in terreno fuori discussione.
La sabbia fine era la più ricercata dagli impresari che la utilizzavano nella intonacatura degli interni ed altre opere fini mentre quella leggermente più grezza veniva usata per fornire la malta da costruzione ed anche per le rare intonacature ester­ne fatte senza pretesa, lisciate semplicemente a colpi di cazzuola, come si può ancora vedere nel­le vecchie case non ristrutturate.

La disponibilità era inferiore alle richieste e talvolta la promessa for­nitura la si rimandava alla prossima piena del fiume.
Mersino, Erbezzo, Rodda ma anche Peglia­no, Spignon erano i pae­si, o~tre naturalmente quelli a fondovalle, ove veniva trasportata la sab­bia con la gerla.

Le cro­nache ci narrano che per la stessa cappella dedica­ta al Redentore, costruita all’inizio del secolo sulla cima del Matajur, venne utilizzata la sabbia porta­ta a spalle da Loch fino in vetta alla montagna.

La ghiaia invece aveva poche richieste, salvo che per solidificare le fondazioni di nuove costruzioni, per il getto dei solai e delle copertu­re, ma questo solo nel recente passato quando il cemento, specialmente per le solette, ha sostitui­to il legname finora in uso.
La richiesta di ghiaia venne ampliata con il completamento di brevi tronchi stradali di cui era fatto lo strato di copertura.
L’asfalto era ancora di là da venire nelle nostre strade comu­nali.

Maggiore impiego da quanto ricavato dal greto del Natisone lo trovava­no i ciottoli tondi levigati con i quali le stradine dei paesi venivano lastricate nel variopinto colore del­le pietre, garantendo il deflusso dell’acqua piovana, la sicurezza del camminare su ghiaccio e dando una impronta este­tica raffinata al percorso.

Anche per la costru­zione dei muri veri e propri si ricorreva al greto del fiume che forniva ogni sorta, forma, grana, qualità e dimensione del­le pietre occorrenti.
Con carretti, carriole e portan­tine (siviere), gli interes­sati avevano di che sce­gliere e rifornire tempestivamente i muratori del necessario.
I muri entro i quali venivano inserite queste pietre levigate, generalmente erano mascherati dalla pietra acconcia perchè la forma tondeggiante e la levigatezza venivano conside­rate, probabilmente a ragione, di scarsa presa sulla malta.

Questi dubbi non li ha avuti certamente il noto architetto Zaccaria Simonitti di Vernasso che per la sua abitazione posta lungo la statale immediatamente fuori di San Pietro verso Cividale, ha usato esclusivamente la pietra levigata del Natisone, creando un’opera originale che nel mondo degli esteti ha avuto a suo tem­po larga eco con ampia divulgazione su riviste specialistiche di architet­tura.

Altrettanto valga per un’altra persona di spicco delle nostre valli, vale a dire il poeta Dino Menichini di Stupizza che desiderando ripristi­nare la casa della mamma, si era fatto fare un progetto di massima dal noto pittore friulano Arrigo Poz, suo amico.

Ebbi modo di vedere il progetto ed assistere all’approccio con l’impresario mio fratello Remo per la realizzazio­ne dell’opera. Alla som­messa obiezione di Remo nell’utilizzazione della pietra levigata del Nati­sone anziché in quella acconcia che è caratteristica di tutte le case di Stupizza, il poeta rispose pressappoco:
«In questo caso per me è prevalente l’interesse che ho verso il fiume piuttosto che alla caratteristica del paesaggio circostante».
Il progetto purtroppo non si è e non sarà mai realizza­to.

C’era infine l’abitudi­ne dei ragazzi a ricercare fra le pietre del greto, una qualità di sassi dal colore cioccolata, chia­mati «gladeži», che ave­vano la proprietà di affi­lare utensili di acciaio.

Ora il greto non è più «di tutti»; sabbia e ghiaia arrivano in camion da altri luoghi mentre il fiu­me dalle rive ricche di vegetazione, «uàrbe» è ridotto ad un canale entro sponde sempre più strette che trascinano a valle ogni cosa, compre­so il ricordo di com’era nel passato.

Argilla a S. Pietro, oro a Montefosca

Come avevamo previ­sto nella precedente penul­tima puntata, riferendoci all’approvvigionamento della calce per gli usi più comuni quali piccoli inter­venti edilizi, imbiancatura delle stanze ed impiego in agricoltura, è giunta pun­tualmente una risposta cre­dibile proprio da una per­sona del mio paese.

Avevamo scritto di non conoscere la provenienza della calce viva nel perio­do anteriore agli anni ‘50, prima cioè della costruzio­ne della fornace di Mala Stupca mentre ora, grazie alle informazioni forniteci dall’amico Giovanni Gubana jr, siamo certi del­la esistenza di un toponi­mo attribuito ad una pro­prietà posta lungo il costone roccioso del Sovinjak detta appunto Farnažja ―fornace. Il luogo è caratterizzato da uno scavo nell’argilla a forma cilindrica entro il quale sembra certo che venissero alter­nati strati di legname e massi di calcare che abbonda nei terreni circo­stanti costituiti dal sottosuolo roccioso.
La farnažja di Cicigolis quin­di funzionava da normale fornace per la produzione della calce ma identiche soluzioni a parere del mio gentile interlocutore, erano estese a tutti i nostri paesi.

In questo nostro lungo excursus su sorgenti, cave e miniere in Val Natisone, avremmo di buon grado segnalato la presenza anche di qualche cava di argilla per la produzione di laterizi ma per quanto estese siano state le ricer­che, l’unica di queste cave e relativa fabbrica, costrui­ta e gestita dalla nota ditta Feletig, si trovava a Cemur, fuori quindi dal campo delle nostre ricerche.

L'avv. Carlo Podrecca però, a pag. 93 del suo libro «La Slavia italiana», afferma che dopo l’incen­dio dell’intero paese di Cepletischis, avvenuto nel 1868 a causa delle coper­ture delle case fatte con paglia, «tutte le case si ricoprirono di tegole, si sviluppò l’industria delle fornaci per materiali da costruzione ed oggi (1884) se ne contano cinque nel comune di San Pietro, cinque in quello di Savogna, quattro a san Leonardo, una a Stregna ed una a Grimacco».
Come si può notare nessuna di tali for­naci esisteva in comune di Pulfero (allora Rodda e Tarcetta).

Molto interessanti inve­ce sono le notizie riguar­danti la ricerca di materiali preziosi che in un sotto­suolo variatamente com­posto, dovrebbero ragionevolmente essere presenti.

Un breve cenno sulla presenza di minerali pre­ziosi ce ne dà, citando Gilardi, ancora Podrecca che scrive testualmente: «a Stupizza si vede ricompa­rire il filone d’argento vivo rintracciato a Cisgne, sotto forma di mercurio nativo...»

«Nella località Tarsiza del Matajur - prosegue Podrecca - si fecero tre assaggi di una miniera d’oro, negli anni 1866, 1873, 1878, tutti e tre su iniziativa del governo Austriaco o di suoi concit­tadini.
Il terzo tentativo studiato e condotto da ingegneri austriaci portò alla conclusione che a Tarsiza del Matajur esiste un ricco giacimento di oro ed argento ma richiede per l’estrazione profonde e costose escavazioni».

Di un altra miniera di preziosi si sentiva parlare fra la gente, sempre però in forma incerta ed approssimativa.
Questa miniera sarebbe stata ubi­cata sopra l’abitato di Stu­pizza, alle falde del monte Mia, lungo il sentiero che dal paese porta a Mon­tefosca.

Le informazioni ricava­te sui luoghi interessati sono queste: nel lontano passato, qualcuno notò, lungo un torrentello che scendeva dal monte, la presenza di particelle di sabbia luccicanti. Risalen­do il percorso, alla origine della sorgente poté indivi­duare la provenienza del matenale.

Fattolo analizzare risultò fosse pirite o qual­cosa di simile, minerale quindi di scarso valore che avrebbe potuto però celare qualcosa di più pre­zioso, oro ovviamente.

Vennero fatti degli sca­vi di assaggio abbastanza avanzati nel monte che hanno rivelato materiali diversi dall’onnipresente pietra calcare, privi però del valore sperato tanto da indurre i ricercatori alla chiusura dello scavo.

In epoca recente, alla fine degli anni ‘50, l’impresario cividalese Luchitta, al termine della costruzione delle scuole elementari di Montefosca, trasferì alcuni operai, precisamente Lorenzo Batti­stig (Vàsin) di Stupizza ed i fratelli Renzo e Milio Massera di Biarzo, dall’edilizia alla mineralo­gia, riprendendo lo scavo di cui aveva avuto notizia.

Il fratello di Lorenzo ci informa che dopo uno strato abbastanza spesso di ottima mica e poi di altro materiale non metal­lico, comparvero anche minuscole particelle del prezioso metallo in cui l’intraprendente Luchitta riponeva le sue speranze.
La quantità d’oro però era talmente esigua ed i costi talmente elevati che l’iniziativa venne abbandonata e la cava chiusa dove nessuno vi ha messo più pie­de, come si può rilevare dalla fitta vegetazione con cui è oggi ricoperta tanto da renderne quasi impos­sibile la localizzazione.

Si può essere certi perà che nascerà un altro Luchitta che riprenderà le ricerche poiché il fascino dell’oro è incarnato nella natura dell’uomo.
Luciano Chiabudini
da DOM 1998
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