LE DUE GUERRE

Noi della 3B (Sc. M. S. di S. Pietro al Natisone - anno scolastico 1997-98) abbiamo voluto quest'anno completare ed arricchire le conoscenze della storia del '900, intervistando conoscenti e parenti che di molti fatti sono stati testimoni.

Siamo consapevoli dei limiti e difetti del nostro lavoro, riteniamo comunque sia utile raccogliere e conservare tali testimonianze nel maggior numero possibile.

La grande guerra

Nostra traccia

La Grande Guerra era iniziata per il Friuli in un certo senso già nel 1914, prima dell'entrata in guerra dell'Italia a fianco dell'Intesa: su 80 mila persone che ogni anno si recavano dalla provincia di Udine a lavorare in Austria, Ungheria, Germania, Svizzera, Francia e Paesi balcanici, circa 53 mila avevano infatti già fatto ritorno agli ultimi di agosto del 1914. La gran massa della popolazione, in Friuli come in Italia, non voleva la guerra. Ma prevalsero gli interventisti ed essa si abbatté sulla terra friulana travolgendo uomini e paesi.

Conferimento di una medaglia d'argento

Abbiamo trovato, tra vecchie carte gelosamente custodite dalla nonna materna di Luca (1), il documento che attesta il conferimento della medaglia d'argento al valor militare, con la relativa motivazione, al capitano del 17° reggimento bersaglieri Enrico Dagna, che di Luca è il bisnonno.



Insieme al documento riportiamo un resoconto più articolato dell'episodio, che riteniamo opportuno riportare in quanto ne emergono con una certa vivezza e drammaticità le le caratteristiche della durissima guerra di trincea.

La sera del 18 agosto 1917, la 3° Brigata Bersaglieri aveva ricevuto l'ordine di attaccare e di occupare le posizioni nemiche di Castagnevizza. Alle ore 4 del giorno dopo, 19 agosto, si scatenò violentissimo e intensissimo il fuoco delle nostre artiglierie. Vivace fu la reazione del nemico che si difendeva e ci ostacolava, replicando alle artiglierie e investendo le posizioni nostre anche con gas asfissianti.

La 3° Compagnia del 17° Bersaglieri attendeva l'ordine di uscire all'attacco, sostando in una caverna scavata a ridosso di una dolina. Alle ore 5 l'ordine dell'attacco fu dato e la compagnia, attraversando il camminamento che portava alla trincea estrema, sotto il fuoco insistente e il fumo delle artiglierie e delle bombarde, sfilò per uno innanzi alla figura del comandante del reggimento, colonnello Martinenzo di Villuguno , che si profilava sul ciglio della dolina maestoso, imponente, impavido.

Prima di sboccare dal camminamento nell'ultima trincea completamento sconvolta, una granata di grosso calibro scoppia vicinissima alla 3° compagnia ed al comandante di questa, capitano Enrico Dagna, che, rapidamente buttatosi a terra, scompare in un cumulo di sassi e di terriccio, avvolto in un fumo acre, denso, nero. I bersaglieri della 3° però continuano ad avanzare occupando l'ultima trincea, credendo morto il loro capitano, come ebbe a dire al Dagna stesso il comandante del battaglione, cap. Vozzi, che sopravveniva per impartire nuovi ordini per l'attacco. Il cap. Dagna allora, ben conscio che i suoi bersagliere dovevano abbandonare la trincea sulla quale si abbattevano le raffiche violentissime delle artiglierie nemiche, che dal Faiti la prendevano d'infilata, raggiunge la trincea stessa e ordina l'uscita fuor di questa e l'attacco, buttandosi all'aperto per primo. I soldati, rinfrancati e rinvigoriti per la presenza dell'ufficiale che credevano morto, sono all'attacco, mentre il cap. Dagna, fatti pochi passi, è colpito al gomito sinistro e al ginocchio destro e cade. Poco dopo è aiutato da un caporale di sanità che lo medica e vorrebbe trasportarlo al posto di medicazione, ma, parendo al cap. Dagna che le ferite siano di ben lieve entità, specie quella al ginocchio, pur perdendo sangue, raggiunge i suoi bersaglieri e riprende l'attacco. Ma quando è per giungere alla prima trincea nemica, cade un'altra volta, sviene e riprende i sensi solo al posto di medicazione.

Su proposta del comandante del Reggimento, gli fu conferita la medaglia d'argento al valor militare.


Elisa intervista la nonna

Elisa è riuscita ad intervistare la nonna (2), prima del suo ricovero in ospedale.

La testimonianza riguarda il momento della guerra più difficile per il Friuli e l'Italia, la rotta di Caporetto, che fece fuggire moltissimi friulani anche verso altre regioni italiane (ben 131.251 abbandonarono le loro case, vale a dire quasi il 21% della popolazione censita nel 1911).

Un giorno quelli del comune hanno mandato per le case delle circolari che dicevano che chi voleva poteva andare come profugo in Abruzzo a Cingoli.

Io, le mie sorelle e mio padre siamo partiti anche perché sentivamo i tedeschi che sparavano.

Una volta arrivati a destinazione, siamo andati nei palazzi disponibili che ci avevano preparato. Mia madre e una mia sorella sono andati in ospedale a Macerata. A mia sorella hanno tagliato la gamba, mentre mio padre è rimasto a fare piccoli lavori. Io e l'altra mia sorella lavoravamo in una azienda agricola e prendevamo i bachi da seta. Avevamo uno stipendio di 9 £ ciascuna a settimana.

Quando la guerra è finita, per le strade urlavano: "Trento e Trieste liberate! Adesso sono tornate a noi!"

Quando siamo tornati a casa non abbiamo trovato più niente. Le persone del paese facevano delle piccole collette per procurarci da mangiare.


Nostra traccia

Questa testimonianza, pur nella sua essenzialità e semplicità, crediamo riesca a rendere con efficacia il tributo pagato alla guerra dalle genti friulane: oltre 15.000 i morti, 5.000 gli invalidi, l'85% dell'apparato industriale distrutto, ridotto al minimo il patrimonio zootecnico.

Alle conseguenze dei danni bellici si aggiunse inoltre una profonda crisi economica: le maggiori aziende non erano in grado di riprendere il lavoro, anche per la mancata liquidazione dei lavori pubblici già eseguiti e pertanto cresceva la disoccupazione e l'emigrazione riprese in forma massicce. Si rafforzarono le leghe rosse degli operai, guidate dai socialisti e le leghe bianche nel mondo delle campagne, organizzate dai cattolici. Pure in Friuli si formarono però squadre fasciste che, sfruttando anche sentimenti nazionalistici e le proteste per la "vittoria mutilata", miravano alla conquista del potere.

L'osservazione attenta della cartina di seguito riportata può aiutarci a capire la fondatezza o meno di tali pretese.



La fascistizzazione del Friuli incontrò una certa opposizione (ne sono prova i numerosi processi del Tribunale speciale, il quale inflisse complessivamente agli antifascisti friulani arrestati o contumaci 8 condanne a morte e oltre 2500 anni di carcere).

Ma vi è anche un consenso sempre più esteso al fascismo.

In ciò ebbe un ruolo importante anche la scuola. L'indottrinamento iniziava già nelle elementari: fin dalla prima classe i bambini dovevano studiare la "rivoluzione fascista" e la biografia del Duce ed era ammesso un unico manuale, quello di Stato.

L'Opera Nazionale Balilla

Notevole importanza ebbe l'Opera Nazionale Balilla, il cui scopo era quello di educare le nuove generazione all'obbedienza, alla disciplina, alla fede cieca nel Duce, a ideali di coraggio, forza e sprezzo del pericolo.

Paolo (3) ha trovato nei cassetti del nonno il "Programma per gli esami dei capi squadra per balilla e balilla "moschettieri" e vale la pena di leggerlo con un po' di attenzione.



Nostra traccia

In questo clima, direbbe Cristina, maschilista, non stupisce che le donne fossero scoraggagiate dall'intraprendere gli studi. Si incoraggiò invece con premi il loro ruolo prolifico, che è in definitiva l'unico loro compito.

Ecco allora che l'ONB (Opera Nazionale Balilla) per le "piccole italiane" e le "giovani italiane" arganizzava principalmente corsi di puericoltura la cui finalità principale è sottolineata nel seguente documento, portato ancora da Paolo.



E gli insegnanti?

Come tutti i dipendenti dello Stato dovevano giurare fedeltà al Partito nazionale fascista e aderire alle direttive politiche del governo. Chi non prestò giuramento perse il posto. Furono pochissimi i docenti che rifiutarono tale giuramento.

Per lavorare - dice la nonna di Nicola (4) che è stata insegnante - serviva intanto essere iscritti al partito e fare il giuramento. "Ma se domani cambia governo, che cosa faccio, giuro di nuovo?" Mi chiedevo. Questo perché io non sono il tipo che giura due volte. Anche all'Istituto magistrale, dove ho insegnato quasi sempre, si faceva il sabato fascista. All'inizio io mi sono rifiutata di andare: insegnavo tutta la settimana e seriamente, perché quan-do io lavoro, lavoro, mi sembrava ridicolo fare il sabato fascista. Così mi hanno tolto la tessera e per un po' non ho potuto lavorare. Il sabato fascista consisteva in esercitazioni di tipo militare per i ragazzi, mentre alle ragazze insegnavano a cucire. Figurati se io mi mettevo a cucire.!

Per lavorare dovevi avere dei gradi, frequentare dei corsi e, per diventare capocenturia, dovevi andare a Roma.- E io ci sono andata. Avevo allora il pallino del disegno, perché a S. Pietro avevo avuto un bravissimo insegnante. Mussolini doveva venire in visita alla scuola. Allora ho preparato dei poster giganti per ornare le pareti della palestra. Lavoravo anche alla redazione del giornale scolastico e ho eseguito un ritratto del duce. Questi, quando è venuto, ha voluto sapere chi ne fosse l'autore. Ricordo ancora la sua faccia. Aveva gli occhi magnetici!


La nonna di Alberto (5) sottolinea l'effetto complessivo delle attività volte all'organizzazione del consenso:

"I più giovani venivano addestrati all'odio ed al fanatismo nelle scuole, le canzoni riaccendevano l'odio nella popolazione, persino i francobolli erano di propaganda. Con questa propaganda truppe anche volontarie sono andate in Africa."

La conquista del "posto al sole" fu assicurata, non senza gravi atrocità nei confronti della popolazione indigena, attraverso l'occupazione dell'Etiopia e la conseguente orgogliosa proclamazione dell'Impero.

Ne hanno raccolto testimonianza Cristina e Roberta (6).

Avevo 41 anni e facevo parte del corpo degli Alpini della divisione Pusteria terza compagnia. Sono partito per l'Africa con la nave Conterosso per volere di Mussolini. Fra noi alpini c'era molta tristezza; noi non volevamo andare lì per uccidere, credevamo che fosse giusto creare un impero italiano. Siamo sbarcati a Masaua (Eritrea) e di lì a piedi fino ad Addis Abeba (Etiopia).



Il viaggio è stato lungo e brutto. Non ci hanno accolto amichevolmente: eravamo dei nemici, andavamo in un luogo straniero come conquistatori. Ci sono state poche battaglie durante il tragitto che è stato faticoso e tutto a piedi. Le più disastrose sono tate a Lambaradan e a Meghessa con circa 30 morti in totale nella mia divisione. Sono stati quasi tutti uccisi dagli abissini,. Noi alpini comunque non provavamo rabbia nei loro confronti. Perchè gli alpini sono sempre buoni.


E poi venne la guerra...

La 2° guerra mondiale

Nostra traccia

Nonostante il "patto d'acciaio", che lo stringeva alla Germania, Mussolini proclamò, in accordo con Hitler, il 1 settembre 1939, la non-belligeranza dell'Italia. La decisione era giustificata obiettivamente dal-la nostra impreparazio-ne bellica e industriale.

Di fronte ai fulminei successi riportati dall'alleato tedesco nella primavera del '40 e al previsto crollo della Francia, il duce ritenne di dover entrare in guerra, per evitare il rischio di intervenirvi troppo tardi. La nostra impreparazione non era certo stata colmata in quei pochi mesi, ma lo sforzo richiesto, egli pensava, sarebbe stato minimo. Gli occorrevano solo "un migliaio di morti da buttare sul tavolo della pace", com'ebbe a dichiarare. Si giunse così, il 10 giugno 1940, alla dichiarazione di guerra all'Inghilterra e alla Francia.

Mussolini si illuse, nei primi mesi dell'entrata in guerra, di poter condurre, in gara con l'alleato gemanico, una sua ambiziosa "guerra parallela" ed autonoma, che doveva avere come linee direttrici l'espansione nel Mediterraneo (Nizza, Savoia, Corsica, Africa) e nel settore danubiano-balcanico. In Africa l'attacco contro gli Inglesi fu sferrato tanto nel Sud-Est somalo (in agosto tutta la Somalia britannica era in mani italiane), quanto in Egitto.

Ma tra il dicembre del 40 e il gennaio del 41 già le forze britanniche contrattaccarono e penetrarono in Libia, poi occuperanno Somalia, Eritrea ed Etiopia.

Nel frattempo Mussolini, preoccupato di controbilanciare la presenza tedesca nel Balcani (la Romania era stata occupata), attaccò improvvisamente dall'Albania la Grecia (era il 28 ottobre del 1940), ma l'offensiva, mal preparata dai comandi militari e insufficientemente equipaggiata, venne bloccata dall'esercito greco, che, largamente rifornito dagli inglesi, contrattaccò, penetrando in Albania.

A Brindisi - è scarna la testimonianza che Alberto (5) è riuscito a ottenere dal suo nonno poco prima che morisse - i soldati restarono fermi tre giorni sul piroscafo prima della partenza per la Grecia. In Grecia la vita era più facile. I nativi avevano un'esistenza di agricoltura e pastorizia, quindi gli italiani dovevamo combattere contro un esercito di pastori.

Sia in Grecia che in Africa i tedeschi dovettero intervenire per darci man forte.

La guerra "parallela" sognata dal Duce si rivelava un'utopia e si andava verso una "guerra subalterna" con all'Italia assegnato il ruolo di satellite rispetto alla Germania nazista.

Umiliato e desideroso di riabilitarsi, Mussolini fu pronto a cogliere l'occasione dell'inaspettato attacco tedesco all'URSS (giugno 1941) per offrire all'alleato la partecipazione italiana peraltro non richiesta, anzi accolta con ostentata freddezza. In Russia furono inviati prima i 60 mila uomini del CSIR (Corpo di spedizione italiana in Russia), formato da tre divisioni. Le divisioni furono poi portate a 10: sono i 230 mila dell'ARMIR, che, forti di soli 55 carri armati e di soli 380 pezzi anticarro, furono schierati a cordone sul Don, su un arco di 300 chilometri, un uomo ogni 7 metri. Qui nel dicembre del 42 furono travolti dalla grande controffensiva russa: nel corso dei combattimenti e della disastrosa ritirata le perdite italiane assommarono a oltre 84 mila uomini, i congelati furono 29.600.

Tra questi c'è anche il nonno di Alberto, che però non ricordava volentieri la sua esperienza e ce ne ha lasciato questa breve testimonianza.

In Russia i soldati italiani venivano ospitati in edifici occasionali, vestiti leggermente e usavano calzarsi con pezze da piedi.

Il pane ghiacciava, se veniva tenuto nello zaino e allora veniva tenuto sotto le ascelle. I tedeschi davano razioni povere ma regolari, mentre le razioni italiane giungevano spesso con 3 giorni di ritardo. Spesso mancavano i viveri e così veniva rubato il grano dai mulini a vento per assicurarsi un pasto e riuscire a sopravvivere.


Sua moglie aggiunge qualche particolare.

In Russia il freddo arrivava fino a 40 gradi sotto zero e il cappotto fornito dall'esercito non bastava a riparare dal freddo. Il pane quando c'era veniva tenuto sotto le ascelle perché non ghiacciasse.

L'ultima battaglia di Alfonso, tuo nonno, è stata sul fiume DON, dove si è congelato entrambe le gambe e lì è finita la sua guerra.


Anche il nonno di Luca (7) è riuscito a rientrare dalla campagna di Russia.



Nella cartina sono evidenziate le località da lui toccate nell'avanzata e poi nella ritirata.

Il viaggio di andata: 1 - 2 - 3 - 4 - 5.

La ritirata: 5 - 4 - 3 - 6 - 7 - 8.

Il nonno ha potuto riabbracciare la sua famiglia esattamente il 9 marzo 1943.

Nella primavera del 1943 il fascismo era in piena crisi. L'istintiva ripugnanza degli italiani per l'alleato nazista, il disastro della campagna di Russia, le deficienze del nostro apparato bellico, la perdita delle colonie, i disagi provocati dalla grave situazione alimentare, i massicci bombardamenti: tutto questo aveva allontanato il paese dal regime e gli italiani da Mussolini.

Lo sbarco in Sicilia degli angloamericani il 9 luglio 1943 e il bombardamento di Roma aggravarono la sensazione dell'inevitabilità della sconfitta.

Il nostro esercito - racconta il nonno di Tommaso (8)- era ridotto allo sbando, alla miseria, senza sussistenza, senza paga, senza sigarette e senza chinino, essenziale dato che testimonia che eravamo in zona malarica e che il il 60% di noi era infettato. Si attendeva lo sbarco degli americani che ponesse fine a questa schifosa guerra.

Dunque la sensazione dell'inevitabilità della sconfitta serpeggiava nell'esercito. Serpeggiava anche tra gli stessi fascisti e nell'ambiente di Corte.

Così il 25 luglio 1943, il Gran Consiglio del fascismo approvava a larga maggioranza un ordine del giorno di sfiducia a Mussolini cercando di scaricare su di lui tutte le responsabilità del disastro. Vittorio Emanuele III destituì Mussolini dalla carica di Capo del Governo, lo fece arrestare e lo sostituì col generale Badoglio.

Per tagliare ogni ponte col fascismo, questi liberò i detenuti politici, abrogò le leggi razziali che erano state emanate contro gli ebrei fin dal 1938 e sciolse tutte le istituzioni fasciste.

La Germania capì subito che gli avvenimenti stavano prendendo una piega pericolosa. Badoglio intanto trattava in segreto con gli alleati le condizioni di una pace separata. L'armistizio, firmato il 5 settembre 1943, fu annunciato l'8 settembre 1943, nello stesso momento in cui le forze alleate sbarcavano a Salerno. In seguito a questo, l'esercito italiano si trovò abbandonato a se stesso e senza istruzioni, mentre Badoglio e il Re si rifugiarono al Sud sotto la protezione angloamericana.

Le nostre divisioni furono facilmente disarmate dai tedeschi e la nostra penisola rimase divisa in due: la parte meridionale liberata dagli alleati e la parte centrosettentrionale occupata dalle forze tedesche.

Progressivamente gli alleati risaliranno lo stivale, come si può vedere nella cartina.



Nella parte liberata si trovava il nonno di Tommaso che racconta ancora:

Le nostre truppe sono entrate alle dipendenze della V armata USA che aveva messo piede in Sicilia e in Calabria con un numero di veicoli da sbarco tali che dalle coste della Sicilia si poteva andare in Tunisia senza bagnarsi le pezze da piedi! Dopo aver alzato le mani agli americani, ci hanno trasferito a Cosenza, in una caserma, poi a Castrovillari, dove ci hanno riarmati, dandoci cannoni e cavalli per andare con loro contro i tedeschi. Quando hanno visto che non eravamo in grado di mantenere questo incarico, ci hanno affidato il servizio di PIPE LINE, che consisteva nel controllare il sistema di tubature che trasportava benzina dal porto di Napoli. Un giorno scoppiò una tubatura e la benzina uscì per un giorno e mezzo al ritmo di 60 l. al secondo e allagò tutta la campagna. Intanto l'inseguimento delle truppe tedesche aveva avuto uun momento di sosta a Cassino: questa cittadina, così come la sua abbazia, fu distrutta, cancellata dalle carte geografiche a causa dei bombardamenti. Ci fu affidato un altro servizio: il controllo di un magazzino di carico e scarico in provincia di Livorno, nel comune di Tombolo. Il magazzino era lungo da Averso a Stagno, ossia 12 Km. Vi erano cataste di alimenti e macchine grandi come paesi, tutte della V armata!

Come è evidente in questa testimonianza lo stupore per la ricchezza delle risorse alleate confrontata con la nostra miseria!

Di questa miseria danno una testimonianza chiara le nonne di Lavinia.(14)

Subito prima dello scoppio della guerra, tra la gente, c'era molta preoccupazione per quello che doveva succedere, specialmente nei più vecchi che l'avevano già provato una volta. La maggior parte delle persone non era d'accordo di entrare in guerra, soprattutto in quelle famiglie dove c'erano ragazzi grandi che avrebbero dovuto andare sotto le armi.

Poi, durante il conflitto, c'era tanta miseria e mancava tutto. Si mangiava quello che si produceva in famiglia: latte, polenta, patate, verdura, castagne, fagioli, minestra, brovada. Altre cose come zucchero, olio, carne, pasta, si acquistavano solo con la tessera. Il caffè non si riusciva a trovare e per il sale si doveva andare a piedi fino a Trieste.

I vestiti erano pochi, si ricavavano dalla roba vecchia perché non si trovava stoffa; per i maglioni, i calzetti, le sciarpe, i guanti, ecc..., si tenevano le pecore e si filava la lana. Perciò si faceva veramente tutto in casa.

Da ragazze avevamo solo due vestiti, uno per la festa e l'altro per ogni giorno, mentre quando eravamo bambine, il vestito era uno solo e così la mamma, il sabato sera, ci mandava a letto presto per avere il tempo di lavarlo ed asciugarlo per il giorno dopo.

Per i lavori in campagna ci si doveva arrangiare perché erano rimasti pochi uomini e in alcune case solo le donne, perciò facevamo degli scambi, le donne andavano a rastrellare il fieno per due o tre giorni in varie famiglie in modo che un uomo andasse a falciare l'erba per loro.

Di notte, spesso c'erano dei combattimenti ed allora ci si riuniva tutti assieme in qualche famiglia per darsi coraggio uno con l'altro. Una volta i tedeschi hanno bombardato Postregna e ammazzato due donne che non potevano scappare perché costrette a stare ferme nel letto da una malattia.


Nell'Italia occupata numerosi gruppi di persone si diedero alla guerra partigiana. Intanto Hitler, deciso a tenere sotto controllo la situazione italiana, liberò Mussolini il 12.9.1943 da Campo Imperatore dove era tenuto prigioniero. Il fascismo tornò così al potere, forte della protezione dell'alleato germanico; il 23 settembre Mussolini organizzò un nuovo governo fascista con capitale Salò: era la cosiddetta Repubblica di Salò.

L'8 settembre 1943 e il movimento partigiano

L'8 settembre segna, come si è già visto, l'armistizio dell'Italia e il conseguente sbando dell'esercito italiano, data la mancaza di ordini precisi dall'alto. I militari pensano solo a ritornare alle proprie case, consegnando le armi e le divise a chiunque.

Il movimento partigiano approfitta del momento per tentare di organizzarsi. Anche nelle Valli esso si sviluppa rapidamente. In particolare il 15 settembre si costituisce a Faedis il battaglione della Garibaldi e nelle Valli il battaglione Pisacane.

Subito dopo l'8 settembre l'Italia viene invasa dai tedeschi, particolarmente interessati alla nostra zona in quanto di grande importanza strategica, poiché attraverso di essa passavano gran parte dei rifornimenti tra il Reich e l'Italia.

I partigiani tentarono di ostacolare l'occupazio-ne tedesca delle Valli e, a questo scopo, fecero saltare il 19 settembre i ponti sul Natisone e sull'Alberone. Ma il 6 ottobre i tedeschi, forzato il blocco di Ponte S. Quirino, si attestarono nel paese di Merso Inferiore.

Verso la fine di ottobre arrivarono rinforzi tedeschi e iniziarono duri rastrellamenti nelle Valli che continuarono per tutto il mese di novembre e di dicembre. Dopo questi rastrellamenti i nazifascisti avevano saldamente in pugno la situazione e installarono presidi in tutti i centri più importanti delle Valli. I gruppi partigiani si dissolsero e rimasero solo pochi attivisti.

Con la primavera del 1944, all'inizio della bella stagione, i partigiani sbandati iniziarono a riorganizzarsi, anzi, i giovani accorsero sempre più numerosi in montagna, accrescendo considerevolmente il pe-so delle formazioni partigiane. Iniziò così un periodo nuovo, un tipo di guerriglia con azioni di stillicidio: oggi si attacca un camion, domani si cattura o si liquida una spia o militari isolati, ecc.

Questo provoca un'offensiva nemica che abbraccia le Valli del Natisone e la valle dell'Isonzo tra Plezzo e Tolmino. E' un momento molto duro per chi vive nelle Valli del Natisone. Innanzittutto per i giovani: arruolarsi nell'esercito della Repubblica di Salò?, diventare partigiani?, nascondersi per non essere costretti ad arruolarsi o finire nei campi di lavoro? Ma anche per la gente: sostenere i partigiani o difendersi da loro?, convivere con gli occupanti dando anche ospitalità, se richiesta?

L'impressione che si ricava dalle interviste (teniamo però sempre presente che il campione non ha valore statistico), è che l'adesione a questo o a quel fronte, il cambio di fronte non sembrano determinati da una scelta meditata o convinta: ai più interessava soprattutto sopravvivere.

Intervista al nonno di Paolo

Il nonno (3) ha rilasciato a Paolo questa intervista.

Quando e dove hai fatto il soldato?

Io non ero un vero soldato, combattevo col duce nella Repubblica Sociale Italiana. Sono stato costretto. I tedeschi catturavano tutti i maschi giovani e davano loro tre possibilità: arruolarsi all'RSI, andare a fare i lavori forzati, essere deportati nei campi di concentramento.

Io ho scelto l'arruolamento nell'esercito; è stata una scelta difficile. Ma se riuscivi a sfuggire dovevi o continuare a nasconderti o diventare partigiano (questi prima si chiamavano banditi, poi ribelli, poi partigiani.)

Dove e come era fatta la tua "base"?

La mia prima caserma era a S. Pietro, dove adesso c'è il municipio e la macelleria. In municipio dormivamo noi, mangiavamo, ecc. Nella macelleria, allora costituita da un solo piano, c'erano gli appartamenti degli ufficiali e gli armamenti. A S. Quirino la nostra caserma si trovava nella vecchia macelleria, dove adesso c'è la fioreria. Di fronte a noi, nell'osteria, c'erano i tedeschi.

Perchè vi siete spostati a S. Quirino?

Perchè una sera le due sentinelle ci hanno tradito, hanno lasciato i cancelli aperti e i partigiani sono entrati e hanno incominciato a sparare. Ci sono stati feriti da una parte e dall'altra e io ho salvato la vita a un mio tenente tanto che mi hanno premiato con la medaglia.

E dopo S. Quirino?

E dopo S. Quirino sono stato ferito.

Come?

Siamo andati in 150 tra italiani e tedeschi a fare un rastrellamento. Non abbiamo né ucciso né catturato nessun partigiano, ma loro sono riusciti a spararci lo stesso e hanno ferito tre di noi, tra cui me. Spesso i partigiani attaccavano le nostre basi in gruppi di 40-50. A Canalutto sono riusciti anche a conquistare la base e hanno fucilato tutti (15-20) a Montefosca.

E dopo l'ospedale?

Mentre io ero all'ospedale, il mio battaglione è partito a Cimolais in Val Cellina. Facevo la guardia a Erto e Casso, sul ponte del Colombero, il più alto d'Europa, ma in seguito i partigiani l'hanno fatto saltare lo stesso. Lì il mio capitano Aita, è stato impiccato giusto l'ultimo giorno di guerra, insieme a un tenente tedesco, a un sottufficiale e al suo cane. Il giorno prima proprio il capitano mi disse se volevo tornare con lui per Pordenone, ma io gli dissi che preferivo tornare per Maniago. E il giorno dopo i partigiani l'hanno preso.

Testimonianza del nonno di Arianna

Sentiamo ora la testimonianza del nonno di Arianna (9).

Quando sono arrivati i tedeschi nella Valli?

Io li ho visti per la prima volta nel '43.

Dove si sono appostati?

Sia nella caserma di Cividale sia a Faedis.

Dove ti trovavi allora?

Io ero a Tarcento e sono scappato con i miei compagni su per le montagne.

Perché sei scappato?

Avevo paura di essere catturato.

Se ti avessero preso, che cosa ti sarebbe potuto succedere?

Loro prendevano tutti i giovani, li arruolavano e li facevano combattere contro i partigiani (che magari erano vecchi amici o famigliari).

E come trattavano gli uomini anziani?

Gli anziani dovevano ubbidire ai voleri dei tedeschi e se si opponevano venivano catturati.

Che cosa hanno fatto i giovani del tuo paese?

Noi giovani di Rodda, quando i tedeschi sono venuti su, ci siamo nascosti sulle montagne, nei buchi, in tane sottoterra; ogni luogo era buono. Alcuni per non essere presi si sono nascosti perfino nelle fogne.

E i partigiani dove si nascondevano? Quanti erano?

Si nascondevano in ogni paesino della Vallata e ce n'erano più di quanti i tedeschi credessero.

Ti ricordi qualche episodio in particolare cui hai assistito?

Due fatti mi sono rimasti in mente con particolare vivezza.

Un giorno ho trovato nel mio campo un uomo alto, con i capelli tagliati corti. Era un russo: era scappato ai tedeschi e mi ha chiesto di nasconderlo. Io l'ho portato in un mio prato in montagna e l'ho nascosto in un buco scavato in terra. Il giorno dopo gli ho portato da mangiare, ma non c'era più. Dopo qualche tempo ho sentito da amici di Montemaggiore che lì si era rifugiato un russo. Ho pensato fosse lo stesso che avevo aiutato. I tedeschi non erano certo teneri con i russi fuggitivi. Ne ho visto un giorno uno punito con crudeltà: veniva spinto in un campo di granoturco già tagliato, ma con le canne ancora sporgenti e acuminate che avrebbero potuto trafiggerlo anche mortalmente.

Ricordi qualche altro episodio?

Un giorno ho visto un uomo, probabilmente un partigiano, che sparava a dei tedeschi che passavano per il fondovalle. Sono corso verso di lui gridandogli di smettere, ma egli continuava. Gli ho gridato che se non smetteva i tedeschi avrebbero poi bruciato le case del mio paese, come avevano già fatto in altri paesi delle Valli, come ad esempio a Mezzana. Lui, che veniva proprio da lì, mi ha risposto: "Visto che la mia l'hanno già bruciata, perché dovrebbe salvarsi la tua?

Ti sei mai aggregato a qualche gruppo partigiano?

Verso la fine della guerra con altri cinque ragazzi di Rodda mi sono aggregato ai partigiani e abbiamo partecipato alla liberazione della caserma di Cividale. Abbiamo fatti prigionieri alcuni tedeschi e abbiamo liberato tutti gli ostaggi.

Parla la nonna di Alberto

Sentiamo ancora la nonna di Alberto.

Dopo l'8 settembre la Germania diventa nostra nemica. Iniziano i rastrellamenti: così i giovani si nascondevano nei boschi e diventavano partigiani.

Assieme ai tedeschi arrivano dalla Russia i cosacchi, costretti a combattere. Un altro flagello erano i partigiani, perché secondo loro tutti gli abitanti dei paesi erano fascisti e inoltre spesso esigevano cibo. Ma il cibo scarseggiava. Un cosacco ammalato venne curato in casa nostra. Voleva, prima di mangiare, che uno di noi assaggiasse il cibo. Proprio mentre si trovava presso di noi fui accusata di essere un'aiutante dei partigiani, perché i tedeschi avevano trovato nella mia proprietà un fucile. La pena per tale reato era la fucilazione. Il cosacco allora andò a Biacis a cavallo e parlò con un suo superiore, scagionandomi. Un giorno mio fratello andò con un suo amico a caccia nel bosco. Aveva un fucile. Sfortunatamente si sparò a un braccio. La madre dell'amico voleva denunciarci ai tedeschi e noi abbiamo dovuto pagare per il suo silenzio: bastava possedere un'arma per essere fucilati.


Cosacchi e mongoli

Spesso nelle testimonianze da noi raccolte si fa riferimento ai "cosacchi" o ai "mongoli": in sintesi questi sono truppe collaborazioniste dell'Armata rossa, cui i tedeschi avevano promesso una nuova patria: il Friuli. Sono cosacchi del Don e del Kuban, Circassi, Georgiani e altri di stirpe mongola, che si trasferiscono con le loro famiglie nella "terra promessa". I sopravissuti saranno poi consegnati dagli inglesi ai sovietici. Molto eviteranno ciò gettandosi con le famiglie nei fiumi.

Ne ha parlato con Hortensia un parente (10), in base a esperienze dirette e indirette e ai risultati di personali letture.

Chi erano i cosacchi?

Erano soldati dell'armata russa che provenivano dal fiume Don e dalla zona del Caucaso. Formavano un esercito regolare: vestiti alla buona, avevano però per le occasioni importanti divise particolari di quando ancora militavano nell' esercito russo. Il simbolo dell' esercito (russo) era SM. Questa popolazione era sempre rimasta fedele allo ZAR e ,quando arrivarono i tedeschi, invadendo la Russia, loro si schierarono con questi contro i russi che li chiamavano perciò traditori. Nel 1944 io avevo 5 anni, quando arrivarono in Friuli armati dai tedeschi e occuparono il territorio collinare dall'Isonzo fino alla Carnia con la promessa avuta dai tedeschi che a guerra finita, e vinta dai tedeschi, si sarebbero qui insediati.

Come mai volevano venire qua?

Perchè in Russia erano considerati traditori e quindi non potevano più tornare. Erano arrivati con la famiglia, cavalli e carri. Una parte di loro si è suicidata con la famiglia gettandosi in un fiume, perché, avendo perso la guerra, dovevano tornare in Russia sapendo di venire uccisi.

Allora abitavo a Vernasso con i miei genitori e avevamo i Cosacchi in casa a dormire. Avevano alloggiati i loro cavalli in un locale adiacente alla casa per cui li sentivo scalciare contro il muro tutte le notti, perchè erano pieni di pidocchi. E non solo i cavalli, anche i soldati, al punto tale che nel muro si fece un buco. Erano brava gente, non mi ricordo che abbiano fatto male ad alcuno : solo due volte a Vernasso dopo il coprifuoco, quelli di loro che erano di guardia spararono a delle persone che circolavano nonostante fosse proibito. Unico danno... il cappello di un mio parente.

Il fatto più grave - e unico che io sappia - è successo a Mezzana.

Due cosacchi che erano andati a rubare galline vennero uccisi.

Il loro comando, che era a Biacis, decise per rappresaglia di bruciare il paese di Mezzana. Ci furono anche dei morti.

Il mio ricordo è legato alla bravura con la quale cavalcavano i cavalli, come degli indiani. Mi ricordo che cavalcavano su e giù per il paese e lo insegnavano ai ragazzi del posto. Un altro ricordo che ho è che suonavano della musica con uno strumento che solamente negli anni 60 ho saputo che era una "balalaica". Al suono di questa balalaica sulla piazzetta del paese di Vernasso due cavalli danzavano su due zampe.

Avevano solo fucili di provenienza tedesca, mitra, insomma armi leggere ,qualche cannone che non ho mai visto. Loro arma era anche una specie di mitragliatrice che si chiamava PARABEl, (lo chiamavano così anche se non so cosa significasse).

Gli piaceva la grappa, e mio padre l'ha fornita a un ufficiale, il tenente Vasili e in cambio questi gli ha regalato un "colbacco" russo con cui poi mia mamma ha fatto le scarpette. Era di colore rosso e nero e il panno era spesso mezzo centimetro. A mio padre hanno regalato anche una coda di cavallo cosacca e egli l' ha conservata per molto tempo. Mi ricordo di un soldato che dormiva in casa nostra, un soldato semplice,molto gentile ed educato,che si conportava bene e si chiamava Costantino.

Ad Azzida invece c'erano dei cosacchi di provenienza mongola che non erano per niente buoni e la gente si lamentava spesso e dopo la guerra si è saputo che ne avevano conbinate tante , pur senza uccidere nessuno.

Un fatto grave è succeso a Ponte San Quirino. Negli ultimi giorni di guerra se ne stavano andando, con le famiglie e i carri. Dei partigiani li hanno bloccati e uccisi tutti, donne e bambini. Una donna cosacca col bambino si è messa in ginocchio pregando i partigiani di non ammazzarla, invece il capo dei partigiani gli ha sparato una raffica di mitra, prima uccidendo il marito, poi lei stessa e il bambino gettandoli ancora vivi dal ponte.

Diverse testimonianze

Completiamo questa serie di testimonianze sul tragico periodo dell'occupazione tedesca delle Valli con la lunga testimonianza concessa a Francesco e a Monica dal signor Mario (11).

Cominceremo quando sono venuti i tedeschi qui a Vernasso. Alla vigilia del loro arrivo si spannocchiava dagli Sturma (il soprannome della famiglia di Francesco),quando sono arrivati due partigiani ad avvisarci che c'era una colonna di tedeschi a Ponte San Quirino. Abbiamo detto loro, allora, di andare via,perché se i tedeschi li trovavano li uccidevano. Il giorno dopo i tedeschi sono arrivati qui in paese e hanno iniziato un rastrellamento. Io sono fuggito in stalla.Ma i tedeschi hanno buttato giù la porta della stalla e mi hanno gridato qualcosa nella loro lingua . Io non sapevo cosa significasse, però sapevo che dovevo andare con loro. Sulla piazza eravamo già in nove, dieci. Sono scappato dietro casa mia e gli altri sono stati portati nel castello di Gronumbergo e avevano tutti paura perchè avrebbero potuto essere portati anche in Germania, poi però sono rientrati sani e salvi a casa sul tardi.

Vernasso era tutto circondato: in valle i tedeschi, in montagna i partigiani. Infatti nei gior-ni precedenti erano arrivati anche i militari, e cercavano vestiario per poter viaggiare in borghese e confondersi con la gente comune. Qui hanno lasciato armi dappertutto e sono andati su per la montagna. Di notte si sentiva sempre sparare.

Qui poi molti ragazzi erano iscritti alla "TODT", ovvero andavano a fare fortificazioni, per i tedeschi.

C'erano due possibilità : o andare alla TODT o farsi militari della Repubblica di Salò.

Durante la Repubblica di Salò hanno preso come militari me e altri ragazzi qui del paese Ci hanno portati giù a Cividale, dove siamo rimasri quindici giorni per poi andare a Tolmino in Slovenia in camion pieni di munizioni. Arrivati a Caporetto abbiamo visto che alcuni ponticelli erano stati buttati giù, al loro posto c'erano dei ponti rifatti, ma visto che l'autotreno era pesante l'autista è andato fuori a vedere se il ponte avrebbe potuto sostenere l'autotreno. Eravamo vicino alla montagna e là in alto c' erano i partigiani e appena ci siamo fermati hanno ucciso sei soldati.

A Tolmino si era in caserma e facevamo a turni la guardia al ponte principale in modo che i partigiani non lo buttassero giù. Questa era la nostra tecnica: c'era un filo spinato dietro la trincea e noi eravamo dentro,uno ogni dodici metri, con il mitragliatore e noi potevamo vedere loro, ma loro non potevano vedere noi perchè là da loro era luce mentre noi eravamo al buio.

A Montespino c'era una compagnia Da lì il comando era distante un chilometro e mezzo. Da Tolmino si portavano i viveri là a Montespino una volta alla settimana sotto scorta. Un giorno i nostri hanno avuto un attacco: prima di Montespino subito dopo un ponte la linea ferroviaria si biforcava, lì c'era un castello e lì li hanno uccisi tutti quanti ,salvo due che sono riusciti a scappare buttandosi dal ponte nel Vipacco. Visto che erano morti tutti quanti, un mattino ci hanno detto, a una quindicina di noi, di andare a rimpiazzareli. Un giorno, la sera, è venuta mia sorella a trovarmi con l' Ernestina di Azzida. Abbiamo trovato, io e il caporale, un posto dove loro due potevano dormire. La mattina seguente, loro sono partite alle sette, mentre noi alle otto dietro di loro, per andare verso Gorizia. Prima di arrivare a Gorizia, mi sembra a Santa Lucia, c'era un posto di blocco italiano. Allora ho approfittato per chiedere se erano passate due signorine e quando hanno detto di no, mi é venuto subito un dubbio: se le avessero prese i partigiani?

Siamo arrivati all' accampamento tardi, quella sera. Non potevamo recarci dalla signora che mia sorella e l' Ernestina erano andate a trovare.

Ma il giorno dopo abbiamo potuto chiederle finalmente com' era andato il viaggio perchè noi non sapevamo com' era andata a finire la storia : " Eh " - disse contentissima". Parlava slavo. Insomma, siamo andati avanti con il tempo finchè non è arrivata una lettera che diceva che i tedeschi avevano trovato dei partigiani. Avevano fatto irruzione nella loro fortezza ne avevano uccisi alcuni, altri erano scappati e altri ancora, dopo una settimana, sono stati liberati.

Intanto a Montespino avevano raso al suolo tutti i vigneti e ci avevano costruito le trincee e c' erano qua e là i mitragliatori e una pattuglia girava di continuo a svegliare quelli che dormivano.

E' andata a finire, un giorno, che è arrivata la dissenteria: andavi nel letto e tornavi fuori subito, forse 200 volte per notte, sempre fuori e dentro e andava comunque così. Due giorni dopo sono arrivati i viveri all' ospedale di Gorizia. Allora, sono arrivato giù all' ospedale e c' erano anche miei colleghi, perchè era come un' epidemia. In ospedale ho incontrato uno di Drenchia che aveva il permesso per andare fino a Udine.

Allora anch' io sono andato con lui. Siamo arrivati alla stazione e là c' erano dei colleghi dell' ospedale, anche loro aspettavano il treno. Per non farmi riconoscere, mentre aspettavo il treno, sono stato sempre nascosto. Doveva venire alle otto ma invece arrivò due ore in ritardo perchè i partigiani avevano interrotto la ferrovia. Siamo arrivati a Udine e abbiamo dormito per terra nella stazione. Alle 5 del mattino è arrivata la ronda tedesca e ci chiesero i documenti. Abbiamo avuto fortuna perché io non avevo niente, ma lui aveva il permesso, e pensavano che eravamo insieme, così l'hanno chiesto solo a lui. Da lì siamo arrivati a Cividale. Anche a Cividale ci hanno chiesto i documenti e, visto che avevamo il permesso per andare solo fino a Udine, abbiamo inventato la scusa che così eravamo più vicino a casa. Insomma è andata bene anche lì. A Ponte San Quirino c'erano ancora i partigiani, allora siamo andati in piazza e c'era il mercato. Prima siamo andati in osteria, di conoscenza del mio amico, per andare a depositare le armi. In piazza abbiamo trovato la madre della Gina che mi disse:"Uh, Mario Mario, sciampe sciampe". Parlava friulano. Allora le ho detto:"Guste, tas , non sta a urlà".Ma lei mi rispose:"Sciampe che le plen di todesks, son là che ti portin vie".

Insomma è andata a finire così...

Le sirene d'allarme antiaeree cominciarono a suonare. Tutti andarono in un piccolo bunker dove c'era la mitragliatrice.Poi siamo tornati nell'osteria di prima e abbiamo ripreso le armi e lì era un sergente maggiore, ed era sempre di Drenchia. Allora abbiamo deciso di andare prima a casa, di prendere un camioncino, ma solo quando non c'erano fascisti. Riuscimmo a prendere il camioncino . L' ultimo tratto era da fare a piedi, così prima di partire andammo nella caserma vicino all'odierno Mitri a ricaricare le armi.

Per strada incontrammo un militare che si lavava in un ruscello e così lo ospitammo per una notte a casa mia.

Il giorno dopo arrivarono i partigiani per cercare del vestiario e mi chiamarono a combattere con loro. I partigiani li conoscevo: uno era di Brischis, un'ex prete, con il nome di battaglia "Prenuja". Così ci incamminammo per non essere subito ammazzati e ci fermammo lì di Klemencig e lì abbiamo preso una forma di formaggio. Ci fermammo anche dal calzolaio per vedere se da qualche parte aveva buone scarpe e sentimmo giù della cappella una raffica di mitra. Così ci incaminammo per la ferrovia e, all'altezza di Florindo, il capo, "Prenuja", mi dide la paga e mi spedì a casa.

Erano gli ultimi giorni della disfatta. Ero qua a Vernasso a casa mia e era arrivata da Tolmino la divisione a San Pietro e stava nelle scuole. Sono venuti a prelevarmi a casa e mi hanno riportato in una nuova postazione. Si era sul finire della guerra e avevamo fatto una postazione a ( ..........) e si era in dieci di noi in servizio notturno. Sono venuti 3 di Brizza e ci hanno detto che a Clenia c'erano i Cosacchi, che avevano circondato il paese e volevano tanti viveri. Visto che io avevo avuto i Cosacchi in casa per un periodo, sapevo molte parole in russo e così andai subito a Clenia. Appena arrivato in paese, hanno subito alzato le mani e noi il cappello. Mi hanno chiesto cosa facevamo lì e abbiamo detto che eravamo in pattuglia. Noi gli abbiamo chiesto quando se ne sarebbero andati e loro hanno risposto che appena avessero visto un colpo di pistola a razzo avrebbero fatto la ritirata. Noi li avvertimmo di stare attenti ai partigiani. In conclusione erano tempi durissimi ,dove se tenevi per uno ti ammazzava l'altro e se tenevi per l'altro ti ammazzava ancora un altro e dove andavi in guerra e tornavi a casa che pesavi 45 Kg.

Ancora più dura fu l'esperienza del testimone di Sabrina (12).

Il 26 maggio 1944, durante il rastrellamento dei tedeschi, sono stati portati via da Tercimonte 16 uomini.

Io in quel momento mi trovavo a casa. Avevo solamente 25 anni. Hanno sospettato che io fossi partigiano, così mi hanno portato a Udine in caserma militare e dopo con carri merci in Germania nel campo di concentramento di Dachau. Il campo era fatto di baracche nelle quali dormivamo con una sola coperta. La mattina i tedeschi facevano l'appello e se mancava qualcuno, veniva cercato e poi impiccato. Ci alzavamo alle sei del mattino e tornavamo alle diciotto, trasportati dalle S.S. Indossavamo vestiti come i carcerati con il numero e lo stemma dei portatori civili. Il mangiare era molto povero: un po' di brodo e un etto di pane. La mattina e la sera ci davano un po' di the senza limone né zucchero.

In un primo periodo lavoravo in cava: trasportavo pietre pesanti sulla schiena, che variavano dai 20 ai 70 Kg. Il percorso era come da Savogna a S. Pietro senza mai fermarsi.

In un secondo periodo lavoravo in una fabbrica, dove producevano ingranaggi per aerei.

La sera andavamo a dormire alle 22.00. Colui che parlava dopo questa ora veniva portato dalla guardia in un ufficio e frustato 25 volte.

Noi prigionieri avevamo perduto la nozione del tempo, tanto che non sapevamo né l'anno, né il giorno, né l'ora. La domenica non esisteva.

Un giorno abbiamo dovuto fare 200 Km a piedi per andare al lavoro e la notte abbiamo dormito per terra. Quel terreno era simile al muschio: quando ci si stendeva, usciva acqua. Il giorno dopo ci trovammo tutti indolenziti e molti morirono.

Prima che finisse la guerra i tedeschi hanno portato via molti prigionieri.


Sentiamo ancora il testimone di Cristina e Roberta (6)

Dopo 2 anni e mezzo sono tornato in Italia dove mi sono arruolato nelle centurie lavorative. Cioè facevo il volontario, costruivo strade, ponti, ferrovie e scavavo buche ecc.

In seguito sono andato a lavorare su un treno. Ho girato un po' tutta Italia, lontano dalla mia famiglia.Il mio treno subì molti bombardamenti; il peggiore fu quello tra Lancenigo e Treviso. Morirono, secondo quello che sentivo, circa 10 000 persone. Avevano bombardato gli inglesi perchè credevano che lì c'era Rommel, il più bravo generale tedesco, ma lui non c'era.

Circa dopo l'8 settembre del 1943 tornai a Vernasso. Io non stavo con nessuno, ma allo stesso tempo con tutti, avevo famiglia e non potevo rischiare. A Vernasso c'erano i Cosacchi, che erano dalla parte dei tedeschi; loro bruciarono tutta Mezzana e alcune case di Vernasso. Io avevo 4 cosacchi in casa, non erano molto cattivi. Una volta mi portarono a casa 4 belle galline e facemmo un buon brodo.

Fui arrestato e però, per merito del dottor Girelli di San Quirino, mi liberarono: qualcuno aveva spiato che io aveva contatti con i partigiani. Io dicevo a quelli di Osoppo* che cosa succedeva a Vernasso e a San Pietro. Io non avevo degli ideali molto sentiti, volevo solo che non ci fosse la guerra. Io avvertii anche quando stava arrivando Tito*, era mezzanotte e in un certo senso li salvai. Lì a Vernasso erano in maggioranza con i partigiani ma nessuno voleva rischiare avvertendoli. *"Osoppo" e "Tito". Nelle Valli operarono partigiani sloveni che avevano portato la guerra contro il fascismo al di qua dei confini e furono rafforzati da reparti locali di S. Leonardo e Clodig, i fazzoletti rossi del le brigate Garibaldi , i fazzoletti verdi delle brigate Osoppo e ancora gli sloveni del IX Corpo d'armata iugoslavo .Erano accomunati dalla lotta al nazifascismo, ma divisi anche profondamente soprattutto per motivi di natura politica e relativamente ai confini. A S.Pietro tutto si concluse il 28 aprile 1945, quando i soldati della Repubblica sociale fecero causa comune con i partigiani. Il primo maggio i partigiani entrarono combattendo a Cividale dove il 2 maggio giunsero le colonne motorizzate dell'esercito britannico. Al termine della guerra la situazione generale era naturalmente molto grave, anche se la maggior parte del patrimonio industriale friulano era stato salvaguardato, così come le opere pubbliche.

E per molti la via dell'emigrazione fu una scelta obbligata.

Come è per il nonno di Estel (13) con la cui testimonianza il nostro lavoro si conclude.

Alla fine della seconda guerra mondiale io avevo 14 anni. Vivevo a Brizza. Quel giorno per tutta la gente sembrava sceso il PARADISO sulla terra. Contemporaneamente suonavano le campane di tutte le Chiese. Era la fine di una tragedia umana. Finalmente in quegli istanti ci sentivamo LIBERI e CONTENTI di essere ancora vivi. Nei mesi a seguire i genitori e anche noi, naturalmente, che eravamo coscienti, si pensava come sopravvivere o tirare avanti, perchè altro lavoro che la campagna non c'era. In poche parole, mancava tutto: soldi e indumenti. Tra tanti stenti, sono passati 3 anni. A 17 anni mi sentivo FORTE e ADULTO e in me era maturata la voglia di migliorare, in qualche modo, l'economia della famiglia. Per fortuna in quel periodo il Belgio richiedeva manodopera per le miniere di carbone. Io, naturalmente, non esitai a partire con il consenso e la firma dei genitori. Naturalmente, non si può descrivere la PAURA dei primi giorni lavorando sotto terra.

Ma mi adattai presto pensando a ciò che avevo già provato in passato . Inoltre, lavorando con persone già esperte, i minatori belgi, la loro tranquillità e il loro modo di trattarci mi rendevano ogni giorno più tranquillo e più sicuro di me stesso. Certo, si guadagnava bene e anche questo fattore ci dava coraggio, perchè dentro di noi sentivamo un cambiamento totale sia economico che culturale vivendo in un paese civile e tecnologicamente più progredito. Naturalmente, avevamo tanto da imparare. Certo, chi era interessato a questo . Dal mio paese, siamo partiti in quattro. Io ero il più giovane; due purtroppo, per colpa della silicosi, sono morti. Perchè quando si lavorava c'era molta polvere di carbone nell' aria, causata dai martelli pneumatici che funzionavano ad aria compressa. Cercate di immaginare quando una trentina di questi martelli pneumatici cominciavano a funzionare nella stessa vena di carbone in uno spazio ristretto!

Io per fortuna non ho problemi di silicosi perchè ho avuto sempre la costanza di aver la maschera sul viso. Infatti io inzuppavo un fazzoletto di stoffa col caffè, lo mettevo sul naso e sulla bocca e sopra mettevo la maschera. Si respirava più a stento con essa ma questa era l'unica salvezza per la silicosi.Coloro che non davano importanza a questo fattore ne hanno subìto le conseguenze. Io ho lavorato in miniera 10 anni, di cui 5 ho fatto il sorvegliante. Avevo anche 30 persone sotto le mie dipendenze. Naturalmente, con una responsabilità non indifferente. A questo si arriva quando uno ha voglia di lavorare, di progredire e nello stesso tempo di essere più utile e riconoscente a coloro che gli hanno dato lavoro. Si lavorava a diverse profondità. La nostra miniera arrivava fino a 600 metri: c'erano miniere che raggiungevano i 1200 metri di profondità. In quanto a questo, la profondità non determina alcun cambiamento come lavoro. Lavoravamo 8 ore al giorno: sabato compreso.

Quando facevo il capo dovevo lavorare anche una domenica sì e una no e così pure anche i giorni festivi. Eravamo vestiti con tute blu, dovevamo lavarci e cucire i vestiti da soli e, in miniera, avevamo solo 2 lampade: una a fiamma e l'altra a batteria. Non tutti avevano quella a fiamma. Noi uscivamo neri, non ci riconoscevamo. Si dormiva in baracche che erano costruite per i prigionieri di guerra e chi non voleva cucinare da solo, mangiava in mensa. C'erano i servizi igienici ma non c'erano lenzuola. Il primo anno che siamo arrivati ci hanno cambiato le lenzuola dopo 6 mesi. Nelle baracche stavano 30, 40 persone. I soldi che guadagnavo li mandavo a casa alla fidanzata. A 22 anni, questa mi ha raggiunto e ci siamo sposati. Così mi hanno dato un appartamento. Là la vita era totalmente diversa. Cercate di immaginare come erano l'economia e le condizioni di vita nelle Valli,invece. Certo devo dire che di pericoli ce n'erano e tanti, però, analizzando le cose, in qualsiasi lavoro esiste un pericolo. La miniera dietro il mio punto di vista non è quell' inferno che qualcuno descrive; è solo questione di abituarsi e adattarsi come hanno fatto gli operai belgi 100 anni prima di noi.

Intervistatori

1. Luca Talotti - Documenti del bisnonno E. Dagna

2. Elisa Martinig - Romilda Martinig - 94 anni

3. Paolo Beuzer - Bruno Beuzer, - n. 12.02.1926

4. Nicola Degrassi - Rosetta Rio

5. Alberto Crucil - Alfonso Crucil, - n.1921 Ilda Chiabudini

6. Cristina Beuzer e Roberta Cont - Gusto Marzolini, n. 1913

7. Luca Talotti e D. Bastiancig - Danilo Talotti, n. 08.12.1921

8. T. Venturini e Martino Panzani - Silvio Venturini, n. 24.12.1919

9. Arianna Specogna - Renato Specogna, n. 16.05.1924

10. Hortensia Rugeles - Eliseo Dorbolò, n. 09.10.1939

11. F. Piva e M. Costaperaria - Mario Scrignaro, n. 1925

12. Sabrina Marchig - Giuseppe Golop, n. 1918

13. Estel Rossi - Romano Cromaz, n. 08.02.1931

14. Lavinia Predan - nonne

Classe 3B - A. S. 1997-98 con la collaborazione degli insegnanti prof.ssa Liberale, prof.ssa Merlino, prof. Specogna

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