L'internamento civile nell'Italia fascista

Il racconto di Carlo Spartaco Capogreco, autore del volume «I campi del duce»
«La tradotta che partì da Lubiana all’alba del 24 luglio 1942, con 300/400 persone stipate nei vagoni senz’acqua né cibo, giunse a San Giorgio di Nogaro verso mezzogiorno.
Fu allora che ci venne comunicata la nostra destinazione: campo di concentramento di Gonars.
Ci trasferirono con un treno locale a Bagnaria Arsa, e da lì, in fila per quattro, ci incamminammo tra i campi, lungo una stradina polverosa.
Nel primo paese un po’ più grande — penso fosse Fauglis — fummo accolti da una folla di donne, bambini ed anziani.
Il nostro aspetto era deprimente.

Assonnati, con la barba lunga, mal vestiti, assetati, affamati... ogni cinque metri ci affiancava un milite con la baionetta innestata sul fucile.
Le donne ed i bambini incominciarono ad inveire contro di noi:
“Banditi, ribelli, assassini, delinquenti!”.
Fummo oggetti di lanci di frutta avariata e di pomodori.
I soldati non reagirono.
Dal nostro gruppo qualcuno esclamò in italiano:
“Non siamo banditi, ma studenti buttati giù dai letti solo perché antifascisti! Lottiamo per la libertà”.
Le sue parole, però, non sortirono alcun effetto. Evidentemente la gente era stata condizionata dalla stampa fascista.
Non c’erano giovani, segno forse ch’erano tutti impegnati al fronte.
Presto scorgemmo in lontananza il campanile di Gonars, poi vedemmo i serbatoi dell’acqua, le garitte ed il reticolato del campo.
Così ebbe inizio la nostra vita di internati...».

Con questo racconto di Jože Koren, allora ventenne studente sloveno, inizia il volume di Carlo Spartaco Capogreco dal titolo
«I campi del duce - L’internamento civile nell’Italia fascista (1940 - 1943)» (Einaudi, Torino 2004).

Con questo lavoro l’autore, docente di Storia contemporanea presso la facoltà di Scienze politiche dell’Università della Calabria, «scopre» un pezzo della storia italiana sconosciuta o volutamente rimossa dalla memoria collettiva.
Eppure i campi di concentramento erano sparsi un po’ in tutta la Penisola e accolsero migliaia di sloveni e croati provenienti dalla terre occupate dall’Italia nel 1941.

In questi territori, scrive Capogreco, «l’Italia ricorse spesso a metodi repressivi che prevedevano l’incendio dei villaggi, la fucilazione di ostaggi civili e la deportazione negli speciali campi di concentramento “per slavi”».
Capogreco precisa che nell’Italia fascista la definizione generica di «slavi» era in uso — con valenza dispregiativa — sia per indicare i sudditi jugoslavi che gli «allogeni» , cioé le minoranze slovena e croata.
I campi di concentramento, allestiti in Italia e negli stessi territori invasi e gestiti quasi sempre dall’esercito, «costrinsero i reclusi a un internamento rigoroso e durissimo che portò alla morte migliaia di persone tra cui moltissimi bambini» .

Ma perché questa pagina di storia venne taciuta e rimossa?
Perché i responsabili di quei crimini non furono nemmeno processati?
Perché non fu concessa l’estradizione chiesta dalla Jugoslavia dei fautori e degli organizzatori dei campi di concentramento?

La giovane Repubblica Italiana, nata dalla Resistenza, non intese fare i conti con il passato.
Insabbiò le indagini sui criminali di guerra italiani e fece un’epurazione di facciata del personale coinvolto con il fascismo.
Queste scelte, sottolinea Copogreco, «contribuirono al formarsi di una coscienza collettiva della recente storia nazionale largamente assolutoria e rassicurante. Il colonialismo italiano fu definito “umanitario”; l’antisemitismo fu liquidato quale “prodotto d’importazione”, e i delitti commessi dalla nostre truppe nelle colonie e nei Balcani vennero coperti da una cortina di silenzio.
In tal modo cominciò a sedimentarsi nel senso comune quella visione edulcorata del comportamento degli italiani in tempo di pace e, ancor più, in tempo di guerra, che li rappresenta sempre “ umani e bendisposti” nei confronti delle popolazioni dei paesi invasi e , in ultima analisi, vittime anch’essi della dittatura e delle guerre volute da Mussolini».
La responsabilità di questa rimozione va attribuita, secondo Capogreco, anche all’atteggiamento «delle forze politiche di sinistra e dell’antifascismo nel suo insieme, che, in nome della “ragion di Stato”, preferirono sottolineare i meriti dell’Italia partigiana piuttosto che le colpe di quella fascista».

L’argomento della «bontà nazionale» fu uno dei punti di forza della nuova classe dirigente che voleva presentare il fascismo come regime senza consenso, quindi come corpo estraneo alla storia e alla cultura italiana.
«In tal modo fu possibile offuscare la più semplice verità che la dittatura — come osservò acutamente Carlo Rosselli — in realtà aveva espresso i vizi, le debolezze e le miserie di tutto il nostro popolo».

Deportazione di “allogeni”

Uno dei meriti dei meriti di Carlo Spartaco Capogreco, autore del volume «I campi del duce» , è quello di aver dato una «sistemazione» alla complessa materia degli internamenti e delle deportazioni compiute dal regime fascista di italiani, di «allogeni», cioé di appartenenti a minoranze linguistiche, e di abitanti delle regioni conquistate ed annesse durante la seconda guerra mondiale.
L’autore, inoltre, inquadra il fenomeno dei campi di concentramento e di internamento in una «tradizione» che affonda le sue radici ben prima dell’avvento del regime ed ha avuto finalità e regole codificate e soprattutto collaudate.

Capogreco fornisce alcune cifre sul numero complessivo degli internati nei campi di concentramento.
Nel settembre del 1939, la Direzione generale di pubblica sicurezza ipotizzò che, nel caso l’Italia fosse intervenuta nella Seconda guerra mondiale, sarebbe stato necessario internare tra italiani e stranieri «appena» 4385 civili.
«Ma le cifre effettivamente raggiunte nel corso della guerra furono più alte. Nell’ottobre 1940 gli internati stranieri erano già 4251 (di cui 1839 “ariani” e 2412 ebrei) e quelli italiani 1373 (di cui 331 ebrei). A quattro mesi dall’ingresso in guerra, perciò, tra italiani e stranieri, erano già stati internati dal ministero dell’Interno 5624 civili. Nel 1941 si registrò un certo rallentamento nelle comminazioni, ma nonostante ciò, nel novembre 1942, l’ammontare degli internati raggiunse un totale di 11 735 persone (4366 italiani e 7369 stranieri) e, nell’aprile 1943, quello di 19 117 (12 285 italiani e 6832 stranieri)».

Questo tipo di internamento era classificato come «civile regolamentare» al quale sovrintendevano le prefetture.
Accanto a questo c’era l’internamento civile «parallelo» al quale, durante la seconda guerra mondiale, ricorrevano maggiormente le autorità militari e non quelle civili.

«Il regio esercito — scrive Capogreco — praticò l’internamento dei civili su larga scala soprattutto nelle aree della Jugoslavia occupate o annesse nel 1941, dove mise in atto una strategia che spesso mirava a fare “piazza pulita” delle popolazioni locali di intere zone abitate.
Una prassi questa che caratterizzò le frequenti “operazioni di polizia” volte al controllo del territorio e si abbinò agli speciali “cicli operativi” antipartigiani, trasformandosi talvolta in vera e propria deportazione di massa, in violazione delle più basilari norme del diritto internazionale. (...)

In Jugoslavia l’esercito italiano ricorse all’internamento dei civili nel quadro di un’occupazione violenta ed esplicitamente razziale che non escludeva l’incendio dei villaggi e la fucilazione di ostaggi civili, e che ha lasciato nelle popolazioni locali “uno strascico di rancori e di risentimenti nei confronti della comunità italiana, che ancora oggi stenta ad attenuarsi”
1).

L’internamento, oltre all’obiettivo di allontanare dalle principali località gli individui che potevano aiutare i partigiani o agire in prima persona contro gli occupanti italiani, perseguiva spesso anche il fine della “sbalcanizzazione” del territorio.

Era questo un vecchio proposito fascista — che oggi diremmo di “pulizia etnica” — che nella porzione di Slovenia annessa all’Italia come “Provincia di Lubiana” sembrò potersi realizzare mediante la “sostituzione” delle popolazioni autoctone con coloni italiani provenienti dalle più lontane regioni del Regno.
“Non sarei alieno dal trasferimento in massa di popolazioni” , affermò Mussolini a Gorizia il 31 luglio 1942; un’ipotesi sulla quale, poco dopo, avrebbe fornito maggiori dettagli il generale Mario Roatta.
Questo disegno si inseriva, d’altra parte, nella ventennale politica di violenza e soprusi — o di vero e proprio “genocidio culturale”, secondo le parole di Elio Apih 2 — messa in atto dal «fascismo di frontiera» nei confronti delle minoranze slovena e croata in Italia».



1) M. Coslovich, I percorsi della sopravvivenza - Storia e memoria della deportazione dall’Adriatisches K�stenland, Mursia, Milano 1994, p. 28.

2) E. Apih, Italia, fascismo e antifascismo nella Venezia Giulia (1918 - 1943), Laterza, Bari 1966.


Le principali strutture per l'internamento

Tre erano le strutture principali di cui le autorità italiane si servivano per l’internamento dei civili nei territori jugoslavi annessi:
Arbe/Rab per la Slovenia e il territorio di Fiume,
Melada/Molat per la Dalmazia, Mamula
e Prevlaka per i territori meridionali.

Il campo di concentramento di maggiori dimensioni era quello di Arbe/Rab ed era sottoposto all’Intendenza della seconda armata.
Da essa dipendevano anche i cinque grandi campi per gli internati jugoslavi presenti in Italia:
Gonars e Visco in Friuli,
Monigo e Chiesanuova in Veneto.

Le direttive sui campi di concentramento erano contenute nella «Circolare 3C-L», emanata il 1° marzo 1942 dal generale Roatta.
Nel secondo capitolo vi si legge tra l’altro:
«Quando necessario agli effetti del mantenimento dell’ordine pubblico e delle operazioni i comandi delle Grandi Unità possono provvedere: ad internare, a titolo protettivo, precauzionale e repressivo, individui, famiglie, categorie di individui della città e campagna, e — se occorre — intere popolazioni di villaggi e zone rurali... .

«In base alle direttive di Roatta — scrive Capogreco —, che ipotizzava lo “sgombero” di 20-30.000 sloveni, venne predisposto un piano che prevedeva, per la “Provincia di Lubiana”, l’internamento di operai, disoccupati, profughi, senzatetto, ex militari, “frequentatori di dormitori pubblici”, studenti disoccupati, persone senza famiglia, studenti universitari, maestri, impiegati, professionisti, operai, ex militari italiani trasferitisi in Jugoslavia dalla Venezia Giulia dopo l’avvento del fascismo».

La stessa sorte era riservata agli abitanti delle case prossime ai luoghi degli attentati, dei quali non si riuscisse ad identificare i responsabili.
La prima disposizione di Roatta prevedeva l’internamento solo di uomini dai 16 ai 60 anni, ma ben presto essa venne «superata ed estesa alle donne e ai bambini.
Studenti e intellettuali dovevano essere internati a prescindere dall’eventuale militanza politica:
“il nostro nemico è costituito dall’intelligenza di Lubiana” , ebbe a dire il generale Mario Robotti nel settembre 1942».

Quanti furono i civili internati provenienti dai territori jugoslavi?

difficile stabilire con precisione il numero, risponde Capogreco, anche perché «non sempre le autorità militari istruivano un fascicolo personale per ogni individuo avviato all’internamento...

Considerando le fonti più attendibili (in primo luogo quelle della Croce rossa internazionale) e facendo riferimento all’insieme dei campi dell'Autorità militare, a quelli dell’Autorità civile all’internamento libero, si può tuttavia valutare in circa 100.000 (per la gran parte sloveni, croati e montenegrini) il numero dei civili “ex jugoslavi” internati dall’Italia.
In riferimento alla sola “provincia di Lubiana”, si può ritenere che , sino al settembre 1943, siano stati internati circa 25.000 civili tra sloveni e croati. Mentre pare eccessiva — pur considerando anche l’internamento attuato dal ministero dell’Interno — la cifra di 67.230 internati sloveni (tra cui 9691 donne e 4282 bambini) avanzata dal governo jugoslavo nell’immediato dopoguerra».

Le minoranze

Le acquisizioni territoriali derivanti dalla Prima guerra mondiale fecero aumentare sensibilmente la presenza delle minoranze linguistiche all’interno del Regno Sabaudo:
327 mila si dichiararono di lingua slovena,
228 mila di lingua tedesca e
98 mila di lingua croata,
«che — annota Capogreco — si portavano alle spalle una struttura socio-politico-culturale e una tradizione di diritti nazionali» che le «vecchie» minoranze (come gli sloveni della provincia di Udine) non possedevano.
Il fascismo avviò immediatamente «una rozza politica di italianizzazione» di tutti i gruppi linguistici.

Nel Sud Tirolo, ribattezzato Alto Adige, vennero soppresse le scuole e i giornali di lingua tedesca, fu italianizzata la toponomastica e venne stravolta la composizione etnicolinguistica della regione: «a causa delle forti ondate immigratorie incoraggiate dal regime, gli abitanti di lingua italiana salirono dal 3 per cento del 1918 al 58 per cento del 1939».

«Il rapporto con l’Italia delle minoranze slave aveva radici lontane — ricorda Capogreco — , che risalivano al trattato di pace del 10 agosto 1866, con il quale il Regno sabaudo si era assicurato il controllo del Veneto, della Val Resia e di quelle del Natisone e del Torre. Alla fine della Prima guerra mondiale gli slavi italiani erano circa 450.000: il 50,02 per cento dell’intera popolazione locale dei territori ex austriaci, passati all’Italia col nome di “Venezia Giulia”».
La prima «clamorosa azione squadristica antislava si ebbe il 13 luglio 1920, con l’incendio del Narodni dom di Trieste - principale sede delle organizzazioni slovene in Italia».

Già nel 1925 Mussolini gettò le basi di quel «fascismo di frontiera... che coagulò le forze nazionaliste italiane attorno all’asse dell’antislavismo combinato con l’antibolscevismo».

Il regime eliminò progressivamente le istituzioni slovene e croate «ispirandosi ad un’ideologia di sopraffazione etnica, portata avanti “in nome di una presunta superiorità della civiltà italiana” che non concedeva alternative all’assimilazione spontanea o coatta».
Fu successivamente dato avvio alla «bonifica etnica» (o «nazionale») della regione, che prevedeva la promozione dell’emigrazione, la confisca delle terre e l’esclusione delle lingue slovena e croata persino dall’ultimo rifugio: la chiesa.

Nel 1940, con l’entrata dell’Italia in guerra, «la polizia colpì duramente le associazioni clandestine slovene, facendo numerosi arresti. Buona parte dei fermati, classificati generalmente come “terroristi”, “nazionalisti”, “comunisti”, o semplicemente intellettuali, vennero sottoposti ad internamento, mentre una sessantina furono deferiti al Tribunale speciale, che, nel dicembre 1941, col cosiddetto processo di trieste, inflisse delle durissime condanne».

Durante la guerra molti soldati, appartenenti alla minoranza slovena o croata, venivano mandati in Sardegna, Sicilia o nell’Italia meridionale. per impedire loro di unirsi alle formazioni partigiane.

Con la conquista della Slovenia nel 1941 le autorità fasciste procedettero all’evacuazione di tutta la popolazione della Venezia Giulia considerata ostile.
Gli internamenti divennero un fenomeno di massa.
Nel 1942 si insediò a Trieste l’Ispettorato speciale di pubblica sicurezza per la Venezia Giulia, che si distinse per la «professionalità» e la crudeltà dei sistemi repressivi adottati.
Esso «poteva decidere liberamente (senza cioè il tramite di questure e prefetture) sulla deportazione dei civili.
L’internamento degli “allogeni” (così erano chiamati gli appartenenti alle minoranze, ndr) divenne, da allora, un vero e proprio incubo collettivo».
Gli internati vennero sistemati a Gorizia, a Poggio Tarzarmata/Zdravščina, nell’ex monastero di Castagnevizza/Kostanjevica e a Piedimonte/Podgora.

Poiché il numero degli allogeni da internare cresceva con l’allargarsi della resistenza, l’Ispettorato chiese la disponibilità di un campo più capiente.
Fu così che, a partire dal 3 febbraio 1943, l’Ispettorato ebbe a disposizione il campo per prigionieri di guerra operante a Montenotte, in provincia di Savona, che poteva ospitare 2000 internati.
In seguito le donne ed i bambini vennero avviati nel campo di Fraschette, in provincia di Frosinone.

Capogreco fa notare che per gli internati «allogeni» nulla cambiò dopo la caduta di Mussolini nel luglio 1943: «un dato questo che conferma una sostanziale continuità tra la repressione antislava fascista e quella badogliana».
Lo stesso vescovo di Trieste, mons. Antonio Santin, richiamò l’attenzione delle autorità sulla necessità di distinguere tra «i partigiani e coloro che volontariamente li aiutano», e il resto della popolazione slava internata che, secondo lui, doveva essere liberata e «lasciata in pace».
Carlo Spartaco Capogreco
DOM - 14.02.2005
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