Il 24 maggio 1915

Il 24 maggio 1915 la Prima guerra mondiale - Testimonianze.
«L’alba del 24 maggio 1915 vide affettuarsi il primo balzo delle truppe che si erano venute concentrando in Friuli durante il lungo periodo della tormentata vigilia, mentre la popolazione tutta fuori, sulle strade e sulle piazze, attendeva fidente ed ansiosa di conoscere l’inizio dei fatti d’armi, dai quali sembrava quasi far dipendere l’esito della guerra».
Giuseppe Del Bianco, nel secondo volume della sua vasta opera «La guerra e il Friuli» (Udine2 2001), inizia così a raccontare i fatti della prima guerra mondiale, a partire da quel 24 maggio di 90 anni fa, quando già nelle prime ore dopo mezzanotte l’esercito italiano si mise in marcia «per raggiunger la frontiera, / per far contro il nemico una barriera».

«Chi alla distanza di tanti anni - prosegue Del Bianco - guarda oggi agli avvenimenti di quel periodo, potrà meravigliare per l’entusiastica baldanza con cui fu salutata dai friulani la diana di guerra, e gli sembrerà ancora più strano che a pochi chilometri dalla prima linea, si potesse poi badare alle quotidiane faccende, senza che il ritmo della vita civile fosse turbato dal tuonar del cannone».

Se in Friuli si poteva ancora attendere tranquillamente alle «faccende quotidiane», non altrettano si poteva dire della Slavia Friulana, dove già da alcuni mesi la vita era stravolta da una massiccia presenza dell’esercito italiano che approntava le necessarie strutture militari a ridosso del confine dell’allora Impero austro­ ungarico.
Secondo alcuni calcoli le sole Valli del Natisone in alcuni periodi ospitavano più di 30 mila militari, due per ogni abitante. Con gli enormi disagi e le immaginabili conseguenze sotto l’aspetto materiale, sociale e, come vedremo, anche culturale e religioso.

Alle ore 2 quel 24 maggio di 90 anni fa una compagnia di bersaglieri ciclisti, partita da San Pietro al Natisone, passò il confine a Stupizza e puntò verso Caporetto senza incontrare resistenza, perché le poche truppe austrache, che presidiavano la Valle dell’Isonzo, si erano ritirate sui monti, dove erano state allestite le opere di difesa.
Nelle stesse ore un altro reparto di bersaglieri, partendo da Cepletischis, in comune di Savogna, raggiunse la Valle dell’Isonzo attraverso Luico. Per quanto riguarda le valli di San Leonardo, abbiamo la testimonianza del parroco, don Giovanni Petricig, che nel Libro storico della parrocchia annota:
«Alle 4, i nostri soldati, partendo da Jainich alle ore 2, sono già nel territorio austriaco. Alle 16.30 arrivavano sul Corada senza colpo sparare perché libero. Tuonavano cannoni sul versante di Tolmino».

Il fatto essere penetrati così in profondità nel territorio nemico senza incontrare opposizioni, meravigliò non poco le truppe italiane, che erano preparate a combattere non appena oltrepassata la linea di confine.
Cosa prevista dalle notizie contradditorie che arrivavano ai comandi militari dalla fitta rete di informatori dislocata nelle zone di confine ed anche al di là.
Alle volte si trattava di informazioni volutamente false divulgate dal controspionaggio austriaco.

«Questo sovrapporsi di notizie - scrive Del Bianco - per se stesse incontrollabili spiega in parte, come durante i primi giorni di guerra, la Divisione di cavalleria (di Palmanova, ndr) varcato il confine, forse per timore di imboscate, si attardasse prima di giungere all’Isonzo, mentre a Gorizia si attendevano le truppe italiane a mezzogiorno del 24 maggio e le autorità avevano tutto predisposto per lo sgombero.
La divisione austriaca del generale Ervin Zeidler, che difese poi strenuamente la città, giunse sulle posizioni del Podgora appena quattro o cinque giorni dopo e molto si meravigliò lo Zeidler di non esservi stato preceduto dall’esercito nostro, che il 24 maggio si spinse appena a quattro o cinque chilometri oltre il confine, senza incontrare resistenza alcuna, tranne qualche intoppo lungo la strada, costituito da alberi segati ai margini e poi rovesciati sulla carreggiata, e i radi colpi di fucile sparati da doganieri e gendarmi, che si ritiravano facendo saltare i ponti» (I, p. 317 - 318). Gorizia fu conquistata il 9 agosto del 1916 in seguito a sanguinosissime battaglie.
Fu proprio uno di quei colpi sparati dalle guardie di confine ad uccidere proprio il 24 maggio, l’alpino Riccardo Di Giusto, dell’ottavo reggimento alpini. «Partito di pattuglia, al comando del capitano Della Bianca, poco fuori di Clabuzzaro fu colpito da una fucilata in fronte.
Egli è stato il primo caduto della guerra italo - austriaca... Fu sepolto nel cimitero di S. Volfango ove vennero poi sepolte un migliaio di salme di caduti in quella zona». (II vol. p. 34 - 35).

Le dimenticate portatrici della Slavia

Il 24 maggio di novant’anni fa l’esercito italiano varcò senza difficoltà le frontiere austriache sul fronte orientale e in poche ore giunse nei centri della Valle dell’Isonzo.
A Caporetto, scrive Del Bianco (II, p. 15), un uomo, «a nome di tutti i compaesani, salutando l’ingresso dei soldati italiani in Caporetto, ebbe a dire dei sentimenti della popolazione: ostile agli austriaci, favorevole alla Slavia; tutti essere pronti a collaborare con l’Italia per la redenzione dal servaggio straniero».
A Sedlo, invece, «le giovani composero una filastrocca che cantarono prima del 24 maggio in dileggio dei soldati italiani, e ricantarono poi, con qualche variante, subito dopo la nostra ritirata di Caporetto» (ibidem, p. 33).

I bersaglieri, partiti da Cepletischis, giunsero in breve tempo a Jevšček nei pressi di Luico.
«Certa Caterina Medves di anni 25 abitante a Jeuzech (recte Jevšček), paesino posto sui contrafforti del Matajur, sopra la conca di Luico, ricorda che il 24 maggio, all’alba, la borgata apparve affollata di bersaglieri.
Ella fu accompagnata dal colonnello che comandava quel reparto e dallo stesso fu richiesta se nei dintorni fossero ancora armati avversari.
Rispose la Medves che erano partiti la sera innanzi i pochi gendarmi e finanzieri che si trovavano, e allora fu pregata di accompagnare le truppe verso Luico.
Strada facendo il colonnello, col quale camminava a fianco, chiese alla donna del marito:
“E’ militare in Austria”, rispose la donna.
“Allora combatterà contro di noi? Forse lo potremmo uccidere o forse lui ucciderà noi”.
“Ma lei fa il suo dovere, e lui il proprio;”.
“E avete bambini?”.
“Sì”.
“Forse piangeranno a casa- andate, andate buona donna e pregate per noi!”.

La Medves lasciò la truppa e rifece la strada verso casa.
Nei pressi di questa trovò un bersagliere disteso a terra, colpito di malore.
Gli portò del caffè, ma il soldato, temendo che fosse stato avvelenato, prima di bere volle che la donna ne sorseggiasse alquanto.
La Medves era l’unica persona che a Jeuzech conoscesse e parlasse la lingua italiana» (ibidem, p. 34).

Anche su fronte della Val Cornappo le operazioni belliche iniziarono nelle prime ore del 24 maggio.
In zona erano disclocati i battaglioni alpini Exilles, Val Dora e Susa.
Quest’ultimo, raggiunta la cima del Monte Maggiore, «proseguì per la linea di cresta dello Stol, rovesciando in un burrone il cippo di confine» (ibidem, p. 14).
Queste truppe furono guidate da Luigi Tomasino, detto Minut, perfetto conoscitore dei posti e degli anfratti della montagna.

Gli altri due battaglioni, Exilles e Val Dora, marciarono invece nel fondo valle e, partiti da due diverse posizioni, vennero a congiungersi alla confluenza del Rio Bianco col Rio Nero, nel punto cioè dove ha origine il fiume Natisone, che nel suo primo tratto corrre verso Caporetto.

«A Bergogna ci fu un primo scambio di fucileria e da parte nostra qualche scarica di mitragliatrice: alcuni territoriali austriaci furono fatti prigionieri.
Nel giorno seguente le truppe alpine, che avevano raggiunto lo Stol, vennero a trovarsi in una situazione alquanto imbarazzante, avendo esaurito le provviste e le riserve d’acqua, e non essendovi possibilità per provvedersi di rifornimenti.

Gli abitanti di Montemaggiore, Monteaperta e Platischis e specialmente le donne furono allora organizzati dal parroco don Cencig e caricati a Nimis gerle di pane e di formaggio, e nelle ultime fonti riempiti orci d’acqua, portarono i pesanti carichi sullo Stol rianimando i soldati e consentendo loro di rimanere su quelle impervie posizioni due o tre giorni» (ibidem, p. 33).

Ecco qui le portatrici del comune di Taipana, che già nei primi giorni della guerra soccorsero i soldati italiani sulla cresta dello Stol.
Sulle portatrici della Slavia nulla o poco è stato scritto rispetto a quelle della Carnia, che hanno ricevuto riconoscimenti e l’onorificenza di cavalieri di Vittorio Veneto.
Eppure analoga preziosa opera di sostegno alle truppe italiane, dislocate sui monti delle Valli del Natisone, del Cornappo e del Torre, esse fecero senza neppure essere ricordate e ringraziate.
Anche se loro la esistenza e la loro opera era conosciuta, in quanto ne parla lo stesso Del Bianco:
«A Timau ed a Paularo, in zona carnica, ed a Platischis ed a Drenchia, territorio pure montano, ma verso l’Isonzo, ove agiva la 2° Armata che si saldava alla Zona Carnia nella conca di Plezzo, la popolazione aiutò, come naturalmente era possibile, i soldati, e le donne caricate le gerle di proiettili e di vivande seguirono le prime truppe avanzanti sui greppi che segnavano il confine, recando loro quanto poteva necessitare in quei momenti in cui, per la mancanza di strade e di sentieri, i servizi di sussistenza non avrebbero potuto altrimenti di funzionare» (ibidem, pp. 13 - 14).

Il nostro giornale, già nel 1987, quando ancora qualche portatrice era viva, aveva fatto conoscere questa realtà con l’intervista ad una portatrice di Stregna (cfr. Dom 16/1987). Ma nessuno si è mosso per dare loro un riconoscimento.

Riportiamo qualche passo dell’intervista fatta da Antonio Qualizza ad una portatrice di Stregna:
«Portavo al fronte ai nostri combattenti sacchi contenenti viveri, in un primo tempo da Podresca a Combresca, in seguito da Clodig a Lenartaj... Avevamo iniziato il mese di maggio, appena i soldati erano partiti per il fronte.
Li seguivamo con i viveri.
I maschi portavano loro anche munizioni.
Questo è durato, penso, fino al mese di settembre.
Poi ci hanno fatto andare da Clodig a Lenartaj, nel mese di ottobre... Sopra le nostre teste e intorno a noi piovevano pallottole e granate; tuttavia siamo andate sempre avanti... Ci alzavamo prima dell’alba e partivamo a piedi.
Tornavamo a casa sul tardi.
La mattina seguente riprendevamo il cammino per Combresca.
Volevamo renderci utili ai nostri soldati; li volevamo aiutare.
Il comando militare aveva dato ordine che tutti i giovani dessero il loro contributo alla causa della guerra.
Noi lo facevamo volentieri..-
La nostra migliore ricompensa era di poter aiutare.
Ci davano 10 lire, non ricordo se al mese o al giorno...».

Una rete di informatori per l'esercito italiano anche nelle valli del Natisone

La guerra accomuna nel dolore, nel lutto e nella sofferenza tutti: vincitori e vinti, aggressori e aggrediti.
Nessuna vittoria o conquista ripaga i lutti e le sofferenze, la perdita di vite umane, gli affetti stroncati, la disperazione di genitori, vedove, orfani.
La guerra non ha confini e quanto è successo nei paesi della Slavia o della Carnia alla vigilia del 24 maggio 1915 è successo anche a pochi chilometri al di là del confine, nei paesi sloveni dell’alta valle dell’Isonzo.
La situazione certamente era diversa: da questa parte si preparava un attacco, dall’altra si approntava la difesa o, nelle immediate vicinanze del confine, al trasferimento dei militari o dei finanzieri in servizio in zona, dei funzionari statali, degli insegnanti o anche di persone in vista nella società civile.
Gli strateghi austriaci avevano predisposto una linea di difesa sulle montagne oltre l’Isonzo.

Non serviva che le notizie sull’imminente inizio del conflitto arrivassero tramite la stampa o i comunicati delle amministrazioni statali.
Alla gente del Breginjski kot o di Livek bastava affacciarsi alla finestra o spingersi sulle alture vicine per vedere i movimenti delle truppe italiane, i lavori per l’approntamento delle trincee e di altri obiettivi militari.


Gli agenti predisposti al controllo del confine ed i servizi di spionaggio avevano il loro bel da fare a mandare relazioni e dispacci ai rispettivi comandi.
Cosa, del resto, che succedeva anche al di qua del confine.
Si ha notizia che anche don Giovanni Gujon, cappellano di San Volfango, «ultima nostra postazione di confine verso la conca di Tolmino, che forniva informazioni al Comando della Divisione di Cavalleria di Udine, pochi giorni prima che scoppiassero le ostilità, fu perfino richiesto se era vero che oltre la frontiera si fossero raccolti oltre ottantamila uomini, al che Don Gujon stesso rispose che ve ne erano appena ottanta!
Era la verità, perché tutta la zona da Caporetto a Tolmino si trovava il 24 maggio completamente sguernita, e da Tolmino al mare, tranne qualche gendarme e pochi doganieri, non vi erano truppe». (Del Bianco, o. c., II, p. 317).

«Alla prefettura di Udine — ricorda ancora Del Bianco — furono rinvenuti documenti relativi a Carlo Jussig di Azzida il quale, funzionario delle Poste di San Pietro al Natisone, prima della guerra riuscì a fornire utili notizie sui preparativi austriaci a Caporetto e a Tolmino.
Arrestato per sospetto spionaggio nel 1912 a Caporetto, venne espulso dal territorio austriaco, ma pure riuscì a tornarvi, anche poco tempo prima che scoppiasse la guerra e giovandosi delle conoscenze che aveva, potè continuare nel servizio a favore dell’Italia” (ibidem, p. 316).

Ma torniamo nel Breginjski kot per rivirere, attraverso il racconto molto particolareggiato fatto da Rudolf - Rudi Šimac nel volume «Kako se je začelo na Soči 1915» (Nova Gorica 2002).
Nei giorni precedenti il 24 maggio nei paesi c’è una febbrile attesa per l’arrivo dei soldati del re italiano (laškega kralja).
I soldati di leva, al comando di Ivan Štih, furono inviati sul Monte Nero. in paese rimase un pugno di uomini che furono dislocati in punti strategici per osservare il movimento delle truppe italiane tra lo Stol, il Mia e il Lubja e per avvertire con un colpo di fucile la violazione del confine.

Anche i bambini, che seguivano con curiosità gli avvenimenti senza capire la gravità dei fatti, decisero di dare il loro contributo alla difesa del paese: dietro i muretti che costeggiavano la strada ammucchiarono pietre per lanciarle contro i soldati italiani.
I primi movimenti delle truppe italiane vennero osservati sullo Stol già nelle prime ore del 24 maggio.
Gli alpini, accampati sul Montemaggiore - Breška ora o Breški Jalovec si spinsero sullo Stol, divelsero il cippo di confine e lo gettarono nel burrone.
Il soldato di guardia nella zona aspettò che gli alpini scendessoro dalla cresta del monte e da una posizione dominante sopra il sentiero che portava al paese attendeva il loro arrivo.
Ed ecco la lunga colonna di soldati italiani che avanzava nella semioscurità.
Lasciò che passasse tutta la fila e col fucile mirò all’ultimo soldato. Partì un colpo che echeggiò a lungo nella vallata...
Era questo il segnale che stavano arrivando gli italiani.
Gli altri soldati di guardia spararono a loro volta.
Il soldato, che sveva sparato per primo, per tutta la vita sostenne di aver ucciso il primo soldato italiano.
Ma tutti i rapporti, esaminati dall’autore del volume, non parlano di morti, ma solo di feriti che furono trasportati all’ospedale di Cividale.

I soldati di guardia, espletato il loro compito, tornarono a Breginj, si liberarono delle divise e delle armi, seppellendole nei letamai o sotto le cataste di legna.
I bambini, che aspettavano gli italiani nascosti dietro i muretti e con in mano i sassi, appena vista l’imponente mole dell’alpino che apriva la fila, abbandonarono ogni velleità e si rifugiarono nelle loro case.
Del Bianco
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