I nostri morti nei lager nazisti

Nelle celebrazioni ufficiali vengono spesso dimenticati, ma il loro sacrirficio rimane nella memoria dei loro cari
Aurelio Chiabudini
Aurelio Chiabudini
Oreste Chiabudini
Oreste Chiabudini
Luigi Platta
Luigi Platta
Giovanni Raiz
Giovanni Raiz
dott. Manlio Fruch
dott. Manlio Fruch
Le vicende storiche ricordate dalle celebrazioni organizzate per il cin­quantenario della fine della seconda guerra mondiale, suscitano in coloro che le hanno vissute sentimenti alterni di gioia perché esse posero fine a sof­ferenze di ogni sorta e per l’Italia rappresentarono l’inizio di un lungo periodo di pace e prosperità nella riconquistata libertà e democrazia, di dolore e rimpianto per le tante vittime che costò.

Con la fine della guerra incominciarono però a giungere anche le terribili notizie sulla scomparsa di tanti deportati nei campi di sterminio di cui nessuno conosceva l’esistenza e che nelle voci correnti risultavano dei pacifici campi di lavoro.

Nei nostri paesi si dà giustamente molto spazio ai dispersi nelle varie campagne di guerra, specialmente in quella russa ed ogni ricorrenza è una buona occasione per ricordare questi caduti.

Stranamente, però, non c’è sta­ta finora altrettanta attenzione per i giovani scomparsi nei lager tedeschi, rei solamente di non avere voluto indossare la divisa degli ultimi segua­ci di Mussolini.
Questi nel solo comu­ne di Pulfero sono oltre una decina senza contare quelli che sono deceduti dopo il rientro oppure portano ancora i segni delle sofferenze subite.

Il più alto tributo di vittime lo ha dato il paese di Cicigolis dove in un rastrella­mento vennero catturati molti giovani e militari rientrati a casa: cinque di essi furono condotti in Germania e solo uno di loro, Bruno Chiabudini, si salvò gettandosi dal treno in corsa nei pressi di Venzone, mentre il suo coe­taneo, il diciottenne Luigi Platta, ven­ne colpito da una raffica della scorta.

I cugini Oreste e Aurelio Chiabudini non vollero seguire i due, ignari del destino che li aspettava tanto che dis­sero: «Gremo gledat strica Tona / andiamo a trovare zio Antonio», rife­rendosi ad un parente emigrato lassù nei primi anni del secolo.
Solo parec­chio tempo dopo la fine della guerra i familiari e i paesani vennero a sapere del decesso dei due giovani e del com­pagno di sventura Giovanni Raiz, tutti morti in date diverse nel lager di Flos­senburg.

Durante i massacranti interrogatori e le torture subite nel carcere di via Spalato a Udine, i tedeschi mostrarono a Luigi Platta una delazione firmata che lo indicava come portaordini dei partigiani.
Il giovane mantenne segre­to il nome del firmatario che però si riprometteva di rendere noto dopo la fuga dal treno. E per tanti motivi è bene che il nome di chi è stato la cau­sa della sua morte lo abbia portato con se.

A noi, parenti e conoscenti di que­ste vittime innocenti, che non avevano nemmeno imbracciato un’arma da guerra, corre il dovere di ricordarli, a cinquant’anni dalla loro crudele scom­parsa.

Il medico condotto di Pulfero dott. Manlio Fruch

«... Domattina partirò per l’esilio in Germania. Saremo in molti. Spero di tornare, e presto, e per sempre. Ma non si sa. Non mi sorprende la decisio­ne presa nei miei riguardi, né mi risve­glia proposiiti di rivalsa contro nessu­no... Non piangere mamma, pensa a quante madri e figli hanno sofferto più di noi, molto più in questa illogica guerra. Vedrete in paradiso il vostro Manlio se non tornerò...»

Così scrive ai familiari il dott. Manlio Fruch il giorno 25. febbraio 1944 su due fogli che una guardia carceraria riuscì a far loro recapitare e che ora vengono con­servati in una cartella presso l’archivio ANPI di Udine dove per gentile con­cessione ci è stato dato di poter con­sultare il carteggio.

L’interesse per il tragico destino del dott. Manlio Fruch, ci deriva dal fatto che gli eventi, che ne determinarono la cattura e la deportazione, maturarono nel comune di Pulfero, dove egli pre­stava servizio di medico condotto dal 1 maggio 1936 quale vincitore di con­corso.
Il giovane medico, dalla rom­bante motocicletta e dal caratteristico pizzetto, entrò subito nelle simpatie della gente che egli metteva a proprio agio e che si recava a visitare in qual­siasi ora e con qualsiasi tempo fino nei più sperduti paesini allora privi di stra­de.

La sensibilità dimostrata verso la gente umile gli deve essere derivata dal padre, il poeta friulano Enrico Fru­ch, insegnante e direttore didattico che commuoveva le scolaresche con la let­tura delle sue poesie intrise di senti­menti di compassione verso i miseri.

Il dott. Fruch non condivideva le ideologie allora in voga e preferiva intrattenersi con la gente di paese piut­tosto che con le autorità quali il pode­stà, il segretario del fascio ecc.

Agli scolari stessi, che erano tenuti a salu­tarlo «romanamente» quale ufficiale sanitario rispondeva con un gesto scherzoso della mano, come di chi vuole scacciare una mosca.

La casa isolata in cui il medico abitava ed ave­va l’ambulatorio (oggi abitazione dell’attuale sindaco) era continua meta di ammalati che molto spesso ricom­pensavano la sua prestazione con gene­ri di cui potevano disporre: un pezzo di burro, frutta, un salame, cibi che spes­so prendevano la strada delle famiglie più bisognose.

La signora Livia B. di Loch, che ancora ragazzina prestava aiuto in casa del dott. Fruch, rammenta molti di’ questi episodi e costituisce la memoria per la figlia del medico Paola cui fece da bambinaia e che vive attualmente a Udine, unica Fruch in linea diretta.

La signora Livia ricorda il periodo bellico, i partigiani che venivano a chiedere cura e soccorso, i rischi a cui si sottoponeva il dottore a causa .di delazioni.

Queste sono documentate da una denuncia fatta nel dopoguerra dai suoi familiari contro persone di un comune vicino che avrebbero istigato anche alcuni residenti di Pulfero a sot­toscrivere una informativa sui contatti del dott. Fruch con i partigiani. guerra, corre il dovere di ricordarli, a cinquant’anni dalla loro crudele scom­parsa. pizzetto, entrò subito nelle simpatie della gente che egli metteva a proprio agio e che si recava a visitare in qual­siasi ora e con qualsiasi tempo fino nei più sperduti paesini allora privi di stra­de. In effetti egli ammise ciò ma chiarì, appellandosi al giuramento di Ippocra­te, di aver assistito esseri umani biso­gnosi di cura.

Gli accusatori tentarono comunque e forse riuscirono a dimostrare anche la sua appartenenza o adesione alle formazioni partigiane ed in base a ciò il 26 febbraio 1944 fu condotto a Dachau.

Da qui fu spostato in vari campi di concentramento in un lungo calvario ove a causa delle sevizie subi­te contrasse diverse malattie.

Morì di tifo il 12. maggio, a Eresing-St. Otti­lien ove una lapide fatta erigere a guer­ra conclusa a cura di quel comune, ne individua il luogo di sepoltura.

I docu­menti conservati nell’archivio Anpi, aprono una finestra su un triste periodo vissuto dalla nostra gente.

Vi affiorano purtroppo anche se rari, episodi di spionaggio da parte di persone che, come si suol dire, sono rimaste sempre a galla e hanno goduto di immeritate protezioni.
Luciano Chiabudini
DOM 1995
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