30 aprile: ultimo combattimento.

Mons. Bertoni scrive nel libro storico della Parrocchia
«Nel pomeriggio grande Babilonia.
Chi comanda non si sa, Alpini, Osoppani, Garibaldini.
Non ci vedo chiaro in questa confusione.
Forse si stava meglio quando si stava peggio».
Sono queste le brevi note che il parroco di San Pietro al Natisone, mons. Antonio Bertoni, scrisse il 28 aprile 1945 nel libro storico della parrocchia.
Come abbiamo visto nelle precedenti puntate, quelli della fine di aprile erano davvero giorni di grande incertezza e di continuo rovesciamento di fronti.
Le Valli del Natisone erano percorse da tedeschi e cosacchi da una parte, dall’altra dai partigiani sloveni e garibaldini, cui si aggiunsero gli «osoppani», i quali a loro volta, negli ultimi giorni, tirarono dalla loro parte gli alpini fino ad allora a fianco dei nazisti.

Il giorno dopo, 29 aprile, mons. Bertoni scriveva:
«Verso le 5 del pomeriggio forte sparatoria a Ponte San Quirino, sono i tedeschi con due carri armati che sparano contro i partigiani, dei quali uno resta ucciso sulla strada fra San Pietro e Azzida.
Poco dopo compaiono coi carri armati un camion di munizioni a San Pietro.
Tutte le case sono ermeticamente chiuse; i carri armati sparano lungo la via, li seguono tedeschi e cosacchi.
Forte colpo alla porta del parroco, il quale discende e si trova due tedeschi e cosacchi di fronte col fucile spianato e gli viene ingiunto di presentarsi immediatamente al comando tedesco che si trova nell’Istituto magistrale, già caserma degli alpini.
Viene accusato di aver consigliato gli alpini a darsi ai Partigiani, accusa che era rivolta contro il cappellano di San Pietro, don Venuti.
Per fortuna il parroco ha potuto stornare le cose».

Mentre Cividale viene liberata il 1° maggio, a San Pietro solo il 2 maggio «alle ore 20 il parroco ordina di suonare a distesa le campane, perché gli ultimi germanici erano stati disarmati a Cividale e disarmati dagli alpini».

Il racconto di mons. Bertoni è alquanto sintetico ed accenna a fatti che cercheremo di ricostruire più compiutamente, per quanto possibile in particolare con l’aiuto del già citato volume di Franjo Bavec - Branko «Na zahodnih mejah - 1945»; (Ljubljana 1997). Prima delle operazioni per la liberazione di Cividale, scrive l’autore (che si avvale largamente anche delle testimonianze di Joško Ošnjak contenute nel volume Il Matajur e la sua gente, Trieste 1982), era necessario liberare San Pietro al Natisone.
La guarnigione era sempre sotto il comando tedesco, sebbene gli alpini del reggimento «Tagliamento» erano organizzati nell'unità «Osoppo» ed avevano partecipato il 28 aprile all’attacco contro il presidio cosacco di San Leonardo (cfr. Dom, 7/05).
Il comando operativo sloveno per il Litorale occidentale decise che il giorno seguente, 29 aprile, di preparare gli alpini alla resa con la minaccia di un attacco.
A questo scopo era stato costituito un gruppo d’assalto.


L’operazione era diretta dal comandante della zona di combattimento di Caporetto, Darko Derenda - Tine.
Il gruppo d’assalto, composto da 70 uomini dotati di armi automatiche, all’alba del 29 aprile era già apostata nelle vicinanze delle caserme degli alpini.
Perché non si arrivasse al combattimento venne mandata una rappresentanza a parlamentare con gli alpini.
Questi erano già preparati, non per arrendersi ai partigiani sloveni o ai garibaldini, ma per tornare alle proprie case col fazzoletto verde al collo.
La maggioranza di loro proveniva, infatti, dal Friuli.

Alla missione partigiana gli alpini risposero di non avere nessuna intenzione di arrendersi né di combattere, ma che volevano tornare a casa, che avevano abbastanza della guerra perché tutti erano stati mobilizzati forzatamente.
E così lasciarono in fretta la caserma e presero la strada che portava oltre il Natisone. Nella caserma lasciarono tutte le armi pesanti, i camion, le munizioni.
Fu probabilmente il loro comando a compiere l’ultima azione ostile nei confronti dei partigiani sloveni.

Qualcuno, infatti, avvertì i tedeschi di Cividale che la guarnigione degli alpini era attaccata.
Solo in questo modo è possibile spiegare la precisa e veloce controffensiva dei tedeschi.

I partigiani, dopo la ritirata degli alpini, fecero irruzione nella caserma, caricarono il ricco bottino di armamenti su due grandi camion, coi quali si diressero cantando verso San Leonardo, dove c’era il Beneški bataljon e i vertici delle formazioni partigiane del Litorale e del Caporettano.


Erano del tutto all’oscuro che contro di loro stava piombando la colonna di carri armati tedeschi, nella quale si imbatterono appena sotto Azzida.
Non c’era nessuna via di scampo.
I colpi dei carri armati distrussero entrambi i camion con il bottino.
I partigiani cercarono di salvarsi con la fuga, ma non tutti vi riuscirono.
Nell’attacco venne ucciso un militare di stanza a San Pietro, mentre furono feriti due responsabili del Comando operativo del Litorale occidentale.

L’ultimo combattimento tra forze partigiane e tedesche avvenne il 30 aprile, nei pressi di Azzida.
Dalle alture a nord-est del paese i partigiani cominciarono a sparare su una grossa colonna tedesca che, partita da Cividale, si stava ritirando in direzione della Val Natisone.
Nonostante le perdite i tedeschi, cui vennero in soccorso i carri armati, risposero con un violentissimo fuoco, che costrinse i partigiani a mettersi al sicuro alla confluenza dell’Alberone e il Cosizza.
I tedeschi, raccolti i feriti ed i morti, continuarono la strada verso Caporetto.

DOM 15-06-2005
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