I proprietari della Slavia vivono affaticati, ma non patiscono la fame



E stato già ricordato (Dom, 9/11) che dopo l’annessione all’Italia nelle Valli del Natisone c’è stato un sensibile aumento della popolazione dovuto, secondo Francesco Musoni, all’aumento della produzione agricola grazie all’eliminazione di alcune malattie, all’introduzione di concimi chimici, alla razionalizzazione delle coltivazioni, all’aumento dell’allevamento dei bovini che gradualmente ha sostituito quello dei caprini e degli ovini.

Francesco Musoni annota che si produceva in quantità sufficiente frumento, mais, orzo e segala, poca avena, ma molte patate e legumi, una buona quantità divino, ma poco generoso; si coltivava una notevole varietà e quantità di frutta e si esportavano molte ed ottime castagne.
Ma il Musoni punta il dito contro una certa ritrosia degli abitanti della Slavia nei confronti di nuovi modi di lavorazione.
«Quasi tutti i lavori nella montagna — denuncia — si fanno amano: tutti i pesi si portano a spalla. In quei buoni e simpatici montanari non è ancora entrata l’idea che in alcune bisogne l’uomo potrebbe essere utilmente sostituito dalla bestia di soma».

Ma se sono attaccati a metodi di lavoro antiquati, quei «simpatici montanari», come scrive Musoni conducono una vita sana e sono morigerati.
«Nel vitto sono frugali ma non tiranneggiano, bevono vino, si cibano di latticini e di uova, fanno anche, più raramente, uso di carni o suine o bovine; patate, mais, legumi, frutta ne sono però gli alimenti principali. Significativo che la pellagra, la quale mena pur tanta strage fra i contadini del basso Friuli, in mezzo agli Slavi è, si può dire, affatto sconosciuta» (Musoni, cit., p. 6).

La pellagra, appunto.
Una malattia grave causata da una dieta povera di vitamine del gruppo B, presenti in prodotti freschi, nel latte, nelle verdure e nei cereali si manifestava dapprima con alterazioni della pelle (eritemi e dermatiti), poi con disturbi gastrointestinali e si aggravava con malanni cerebro-spinali (tremori, irritabilità psichica, paralisi progressiva, delirio acuto). Poteva avere esito mortale.

Era l’anno 1895 quando Musoni scrive che la pellagra nella Slavia era di fatto sconosciuta. Ma in precedenza, contrariamente alla diffusa opinione (e Musoni lo conferma) che questa malattia non vi si era manifestata grazie ad un’alimentazione varia e sana, la pellagra era conosciuta anche nelle Valli del Natisone. Girolamo G.

Corbanese (cit., pp. 469- 470) rileva che nel 1830, nel distretto di San Pietro degli Slavi, che allora contava 12.630 abitanti, c’erano 124 pellagrosi, un numero non rilevante e, rispetto ad altri distretti del Friuli, percentualmente basso.
Ad esempio, il distretto di Aviano su 10.057 abitanti contava ben 571 pellagrosi,
quello di San Daniele su 21.917 abitanti, 1911 erano pellagrosi,
Faedis, con tutta la montagna fino a Platischis, contava 11.457 abitanti e 343 pellagrosi,
Tricesimo con Tarcento e fino a Lusevera su 13.492 abitanti ne aveva 639.
Nelle Valli del Natisone la pellagra scomparve totalmente prima del 1881, quando su 14.239 abitanti non c’era alcuno affetto da questa malattia, mentre a San Daniele ce n’erano ancora 328, ad Aviano 264, a Codroipo il loro numero era addirittura salito dai l49O del 1830 ai 1583 del 1881...

Nei cinquant’anni dal 1830 al 1881, dunque, le condizioni sociali migliorarono e la pellagra sparì definitivamente. Grazie soprattutto all’alimentazione varia e ricca di vitamine.
Don Eugenio Blanchini (Biacis 1863 —Udine 1921), grande operatore sociale dell’arcidiocesi di Udine, nella terza edizione della pubblicazione «La Slavia», edita nel 1901 (2° ed., Cividale 1996) in occasione della prima messa del compaesano don Giovanni Guion (Biacis 1877 — Valbruna 1966), descrive il menù quotidiano dei montanari della Slavia nell’ultimo scorcio del 19. secolo.
«Mangiano quattro volte al di La mattina alla prima alba, patate o castagne, dirado caffè, più spesso polenta e formaggio o latte; alle nove legumi o lattughe miste con poca farina, formano il loro pasto principale, a mezzodì, o pan giallo con formaggio o carne di maiale, e raramente vino; la sera batuda e polenta alternata con castagne o patate» (p. 21).
E sempre don Blanchini descrive così l’aspetto fisico dei suoi conterranei:
«dalle condizioni esposte chiaro apparisce che i piccoli proprietari della Slavia friulana vivono affaticati e poveri sì, ma non patiscono la fame, e grazie alla varietà dei loro prodotti, alla buon’aria, alle acque salubri e specialmente alla loro sobrietà vivono sani, sono di fibra robusta, di corporatra forte e ben proporzionata» (ibid.)

Certo, era un’economia di sopravvivenza che lasciava poco spazio al commercio e alla realizzazione di qualche guadagno Sulla piazza di Cividale e di Udine si vendeva soprattutto legna da fuoco, mentre la massaia, scrive don Blanchini, «vende una parte del burro e compera il sale, l’olio di lume e le vesti, il padron di casa vende li legna e le frutta, fa le spese più grosse e acquista il maiale se gli avanza un soldo dalle imposte» (ibid., p. 15).

Le imposte, per don Blanchini, sono «quasi una camicia di forza» che grava pesantemente «sopra la misera proprietà della Slavia».
Nella pubblicazione riporta il totale delle tasse imposte negli otto comuni delle Valli del Natisone che ammontavano complessivamente a 107.119,11 lire, per una media a famiglia di 12,67 lire annue.
Secondo un calcolo approssimativo ogni ditta doveva corrispondere oltre 51 euro, senza tenere conto del canone dei lotti comunali, che pure erano elevati.

Blanchini lamenta la mancanza di caseifici moderni, fatto che denota lo scarso spirito cooperativistico della gente: il primo caseificio fu costruito a Rodda verso la fine dell’Ottocento.
Per il resto il latte veniva lavorato direttamente nella vicinanza delle malghe.
«La latteria consiste in un tugurio coperto di paglia circondato di muro o gradicio. Una caldaia, alcuni vasi e catini di creta, un catenaccio che pende fra due sassi che raccolgono le legna, qualche vecchia forma di formaggio, sono tutte le masserizie di queste latterie primordiali».
Per Blanchini il mancato sviluppo delle latterie sociali è dovuto «al carattere sospettoso e diffidente di ogni novità di questi forti e franchi montanari dai costumi patriarcali», ma anche alla scarsità della materia prima in quanto «gli agricoltori hanno appena tanto latte da mantenere la salutare batuda per la famiglia, la quale provvede il burro e di più sostituisce il companatico per la cena e si accompagna con fagiuoli e con patate e più spesso con polenta. A sostituire la batuda con altri cibi almeno per ora vi sono difficoltà invincibili fino a tanto che coll’aiuto dei Sacerdoti e dei Comuni di colassù non si cambi radicalmente il vecchio sistema di agricoltura cominciando dal migliorare la razza delle mucche».
I bovini, infatti, sono di forma bassa, scarna, di mantello biondiccio, ricchi più di latte che di carne. Appena nei paesi posti al principio delle convalli si vede qualche traccia di miglioramento bovino della razza Simmenthal che nel Distretto di Cividale è molto in fiore» (pp. 19-20).
Giorgio Banchig
DOM n. 12 - 2011
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