Il Vicariatus Sclaborum di Tarcento

L'origine e le vicende storiche dell'istituzione eclesiastica che raccoglieva gli sloveni della valle del Torre
In occasione della consacrazione della ricostruita chiesa di san Carlo, la parrocchia di Ciseriis ha dato alle stampe le note storiche raccolte nell’archivio della Curia arcivescovile di Udine sull’assistenza religiosa del «Vica­riatus Sclaborum», cioè dei paesi sloveni delle valli del Torre.
Autore di queste note è stato, nel 1932, mons. Giuseppe Piccim che negli anni Venti è stato cappellano di Tarcento, il centro che per tanti secoli è stato punto di incontro dei fedeli ftiulani e sloveni.

Le vicende storiche del Vicariatus proba­bilmente affondano le loro radici al momento della conversione degli slavi del Torre al cri­stianesimo, conversione che, nello stile di Aquileia, fu condotta nel rispetto della lingua e della cultura di quelle popolazioni.

Le notizie più certe si hanno verso la fine del 15. secolo quando «i filiani dei monti, esi­gendo un vicario per loro, ne rivendicarono il diritto appellandosi alla vecchia consuetudi­ne» in base alla quale il pievano di Tarcento doveva tenere e mantenere «unum socium qui sciat idioma sclabonicum».

Le richieste degli sloveni si ripeterono più volte nel corso deI 15 e 16. secolo fmché il 9 febbraio 1602, sotto il zelante patriarca Barba­ro, si arrivò ad un definitivo «concordio».
In esso fu deciso che il pievano di Tarcento « a sue spese, vale a dire col detto Pievanato e col quartese, dovesse avere un cappellano idoneo per l’amministrazione dei Sacramenti, e cono­scitore della lingua slava per la cura d’anime nelle ville slave soggette agli stessi consorti di Tarcento».

Gli abitanti delle montagne contribuivano con un formaggio o quattro soldi e mezzo per «massaria».
Un’ulteriore sistemazione del ser­vizio alle ville slave si ebbe cinque anni dopo con un altro «concordio» che è stato firmato il 2 settembre 1607.
Esso stabiliva che il cappellano doveva essere nominato dalle stesse comunità degli sloveni, che il suo onorario non veniva più dal pievano ma direttamente dalle popolazioni delle ville e che doveva abitare nella “casa che essi Slavi eressero a Tarcento”. Nonostante la chiarezza di questi contratti le liti e le incomprensioni continuarono lungo il secolo 17 e i primi decenni del 18 secolo, quando inizia il graduale distacco delle ville montane dalla matrice.
Villanova, Lusevera e Sedilis si fecero i loro cimiteri;
nel 1738 Luse­vera si staccò dal Vicariatus;
a Villanova, Sammardenchia e Sedilis salivano dai paesi vicini i sacerdoti a celebrare la messa ogni domenica.

Il 2 febbraio 1780 si arrivò ad un’ulteriore sistemazione del servizio religioso nelle ville slave: i comuni ebbero la facoltà di scegliere una chiesa come «sacramentale» (non senza contrasti venne scelta quella di Ciseriis), di avere un fonte battesimale e di eleggere un loro vicario, che però era obbligato ad adem­piere ad alcuni obblighi nei confronti delle pieve di Tarcento.

Non senza difficoltà e litigi si andava deci­samente verso l’autonomia delle comunità slovene della valle del Torre.

Con decreto 23 dicembre 1844) il vescovo di Udine dichiarava cessate tutte le facoltà concesse a favore della chiesa filiale di Cise­riis, facoltà concesse nei due secoli precedenti al Vicariatus Sclaborum.

Nella presentazione l’ex parroco di Cise­riis, don Valentino Costante spiega le ragioni che hanno portato alla stampa di queste note storiche.

«E ancora questo libretto ― scrive don Costante ― racconta come i nostri vecchi chiedevano di usare con il Signore la lingua di ogni giorno, convinti che masticare preghiere come masticavano la miseria nella loro vita, li faceva sentire più autentici e compresi dal Padre di tutti.
E adoperare la ‘sclabonicam linguam” fuori e dentro la chiesa, nella dottri­na cristiana e nel seppellire i loro morti dava ad esso ― veramente ante litteram ― coscienza delle loro radici, come persone e come cre­denti, e anche dei loro diritti».
Giorgio Banchig
DOM 1995
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